5. Il Principe di Raisinberg

© Irina Boicova, 2020. 
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Iskander fissò lo specchio con il muso lungo. La sua camicia era rigata da fasce colorate di blu, giallo, rosso e viola, ciascuna era impreziosita da filo dorato. La cintura era ben stretta sul pancione che sporgeva: da sotto sbucavano pantaloni larghi, che poi si stringevano alle caviglie, intrecciate a loro volta dalle stesse strisce di stoffa ricamate per trattenere gli stivali di cuoio, troppo rigidi ai piedi. Il colletto bianco sbucava dalla camicia, aprendosi in drappeggi intorno alla testa. I capelli castani erano legati alla nuca e in testa aveva la corona dorata e resa pomposa dalle mille pietruzze preziose di tutti i colori.

«Sembro un barile di birra» sbottò.

«Non è affatto vero» Alinna lo disse con tono severo. Si alzò dalla poltrona e andò alle sue spalle, poi tirò il colletto verso l’alto. «Ha l’aspetto che deve avere».

Era una donna alta e minuta, eppure le sue mani ossute erano forti. Era rigida in tutto, non solo nei modi, ma anche nell’aspetto. Le rughe sul viso le tiravano le strette labbra e lo sguardo era sempre torvo. Il naso era a punta e il collo troppo lungo e fine, portava i corpetti allacciati dietro, tanto stretti che la vita era minuscola. Le gonne si pompavano sotto il busto. Aveva poi quel modo di camminare con passi piccoli, ma svelti, con le mani intrecciate sul vestito e con la schiena sempre eretta. D’altronde era la sua educatrice e maestra. Iskander ne aveva ricevute di bacchettate da Alinna!

Borodan era l’esatto contrario: un uomo non troppo avanti con l’età, dal viso sbarbato e occhi celesti e gentili. A sua volta legava i capelli, ormai bianchi, sulla nuca, indossava camicie di buona fattura, ma in tinta unica, specialmente di nero o blu notte. Pure lui aveva la pancia che sporgeva e si muoveva calmo, anche nel camminare.

«Ci deve fare l’abitudine, principe» suggerì dall’altra poltrona.

«Si sbrighi con il tè, Consigliere. L’ora è giunta!» squittì la voce di Alinna.

«Oh, sì, sì, ma certamente». Borodan deglutì ciò che restava nella tazza e la fece tintinnare nel piattino, prima di posarla sul tavolo, quindi si alzò accanto all’educatrice.

«Andiamo?»

Iskander guardò per l’ultima volta lo specchio, detestava i suoi abiti, odiava anche quei momenti.

«Sì» disse. Non aveva scelta.

 

***

 

«Iskander dei VentoOrientale, principe di Raisinberg e delle Terre Nordiche» fu così che Borodan vociò nella sala dei banchetti, che si zittì all’istante. Iskander attese tre secondi, quindi entrò. Le lunghe tavolate erano sprovviste di cibo, ma tutte occupate. Sentì gli sguardi su di sé, mentre andava a prendere posto. Poi si sedette al centro in modo che tutti lo potessero vedere e lui riuscisse a vederli a sua volta. Borodan e i presenti si accomodarono subito dopo il principe.

La riunione con gli esponenti delle casate si teneva in quella sala per ragioni culturali. Il re accoglieva i signori delle terre, lì dove si pranzava, come se facessero parte della famiglia reale. Così Iskander si trovò a guardare i capi più alti delle Terre Nordiche, signori che riscuotevano i tributi, da cui trattenevano una piccola somma e consegnavano il resto al reame. Erano gli stessi che governavano, in sua vece, i villaggi e i campi coltivati, coloro che portavano la parola del re ai sudditi e si impegnavano affinché la legge fosse rispettata.

«Dunque, chi e cosa reclama oggi?» domandò il suo Consigliere.

Iskander contò tredici persone che si alzarono in silenzio. Borodan fece cenno al primo di avvicinarsi.

«Barsh degli OcchiGrigi» si presentò il ragazzone. «Principe, la nostra casata ha conquistato il Monte D’Argento, in suo nome. Abbiamo subìto delle perdite e ci sono molti feriti. Per riprenderci abbiamo bisogno di denari per acquistare armature, armi e cure».

Iskander voltò lo sguardo sul Consigliere, che già trascriveva il tutto.

«Quanti denari?» disse il principe al ragazzone.

«Ci occorrono 300 denari, principe. Siamo quasi 500 persone».

Devi dare, ma non dare troppo, ricordò la voce di suo padre.

«Sono troppi 300 denari. Dovrebbero bastarne 180 e manderò sette Curatrici con voi sulle montagne».

«Ma principe...» e prima che potesse finire di obiettare, Borodan stava già in piedi a chiamare un altro. Barsh si piegò in segno di rispetto e tornò a sedersi.

«Darumond dei Silenziatori» quel nome fece correre un brivido a Iskander. Provò a non far notare il suo disagio di fronte all’uomo vestito di nero dalla testa ai piedi. La sua bocca si vedeva muoversi a malapena da sotto il largo cappuccio calato sulla testa.

«Principe… La barriera del suono è stata eretta, impedirà ai LandeGhiacciate di varcare l’ultimo passo delle montagne o di spiarci tramite gli Ascoltatori. È tutto» fece un inchino e si sedette.

Era una buona notizia, forse. Da quando suo padre, re di Raisinberg, era morto in guerra alleato con la città di Tritico, le casate si erano spaccate: avevano dichiarato guerra l’uno all’altro. Tutti desideravano salire al trono, ma era Iskander il vero e unico erede del re. Forse era troppo giovane, a sentire i signori. Era stato Borodan a muovere i fili delle alleanze, aveva portato dalla sua parte quasi la metà delle casate. Le altre si erano alleate con i LandeGhiacciate, i quali lo combattevano dall’altra parte delle montagne.

«Igor delle PioggeRosse». Ecco un altro nome che fece venire i brividi a Iskander. «Chiediamo i vigneti e i campi di luppolo, che da sempre ci appartengono».

«Li chiedete per la settima volta» osservò Iskander. «E per la settima volta sono costretto a rifiutare».

«Principe, quelle terre ci servono. Abbiamo registrato un calo del 30% della produzione in questi anni!»

«Il principe ha parlato. La sua parola è legge» si alzò Liviana delle MontiBurrascosi.

Ecco che ci risiamo, pensò Iskander.

«Ha parlato a vostro vantaggio, mi pare» Igor si voltò a fronteggiare la donna. Poi si presero a rimbeccarsi nel mezzo della sala, come se non ci fossero altri presenti.

«Per le vostre terre vi abbiamo donato 700 Guerrieri formati!»

«Guerrieri morti e sepolti, ce ne restano 70».

«Non è un nostro problema, se li avete persi tutti».

«Se fossero stati così formati, come vi vantate, di sicuro sarebbero ancora vivi» Igor piantò il pugno sul tavolo per sottolineare le parole, ma Liviana non si scompose,

«Sarebbero vivi, se aveste avuto un briciolo di strategia nel vostro sangue!» lei ribatté alzando il seno prosperoso.

A quel punto tutti i presenti si misero a vociare gli uni contro gli altri. Iskander roteò gli occhi. Il suo Consigliere lo guardò male. Sbuffò e si alzò dal suo posto.

«SILENZIO!» gridò con tutto il fiato che aveva in gola.

Tienili a bada, tornavano alla mente le parole di suo padre. Fai finta di essere il loro padre e che loro siano i tuoi figli. Li devi nutrire, accudire e salvare, quando è necessario. Ma devi anche essere fermo nel saperli indirizzare.

«La mia decisione è presa. Che questa sia l’ultima volta che sento la proposta da parte dei PioggiaRossa. Adesso, data la vostra mancanza di rispetto, la riunione finisce qui. Sarà Borodan, il Consigliere, a ricevere i vostri tributi e rapporti. Arrivederci».

Si voltò senza guardarsi alle spalle. La sala scoppiò di proteste.

«Noi non abbiamo parlato!»

«La nostra richiesta!»

«Oh, ma che modi!»

Nel corridoio accanto alla sala, Alinna lo aspettava con le braccia intrecciate sulla gonna. Lo guardò tagliente, ma non commentò, poi lo seguì lungo il castello, con i suoi piccoli passi, che facevano ondeggiare le gonne.

Iskander era furioso. Nulla era stato facile da quando era salito al trono, tanto per cominciare, non era pronto. Anche se suo padre gli insegnava fin da quando ne aveva memoria. La verità è che aveva paura di tutti quei signori. Temeva che lo sgozzassero nel sonno, come facevano i Silenziatori, o che bruciassero i campi: potevano allearsi contro di lui e assediare la città, facendola morire di fame.

Con un brivido ricordò i suoi primi giorni di regno: era stato costretto a tagliare la lingua a Mosca degli OcchiGrigi per averlo offeso e per aver aizzato gli altri contro il nuovo principe. Iskander aveva dato l’ordine e non aveva distolto lo sguardo, nonostante dentro si fosse agitato: gli era salito il vomito, quando il sangue aveva imbrattato il pavimento tra le grida dei signori nella sala, ma era riuscito a rimanere immobile.

Sei una statua, gli diceva il padre quando Iskander era bambino. Per correre troppo era inciampato e dal bruciore era scoppiato in lacrime, nel cortile. Una statua non ha alcun sentimento e questo fa paura agli altri. Tu sei una statua. Dentro puoi provare di tutto, ma fuori nessuno lo deve sapere.

«Mosca degli OcchiGrigi!» aveva tuonato il principe quattordicenne nella sala sconvolta. «Da oggi ti chiamerai LinguaTagliata. Non sarai più un Signore di una casata. Ti sarà concessa la grazia di rimanere nella famiglia, ma la dovrai meritare con la lealtà che, finora, non hai dimostrato. Il tuo primogenito, Barsh, prenderà il tuo posto come capo degli OcchiGrigi, sotto il mio potere. Se ti dovessi rifiutare, sarai esiliato dalle Terre Nordiche: i tuoi discendenti perderanno le terre, la casata sarà dichiarata caduta e il suo nome cancellato».

Mosca, con la faccia piena di sangue, facendo versi incomprensibili di dolore o di chissà cosa avesse voluto dire, si era gettato ai suoi piedi in un inchino tanto profondo da stendersi del tutto. La sua casata fu salva, Barsh prese il posto del padre LinguaTagliata.

«Principe! Aspetti!»

Iskander si voltò con fastidio.

«Mora, che ti prende?»

Era un servo, un Signore che curava i giardini del castello.

«Mi dispiace, mio principe» s’inchinò, ma la voce era urgente. «È successa una cosa, altrimenti non l’avrei disturbata. Ho atteso che usciste, deve vedere con i suoi occhi!»

Alinna aveva già storto il naso e iniziato a protestare, quando Iskander alzò la mano. Qualcosa nella voce di Mora lo allarmò.

«Mostramelo!» ordinò.

L’uomo corse fino all’ingresso principale, svoltò verso i portoni e si riversò in cima alla grande scala che scendeva fino alla città sottostante. Appena Iskander comparve dietro, otto Guardie delle Porte gli furono ai fianchi. La cosa lo infastidì, come sempre.

Raisinberg era una città costruita con la roccia calcarea dei monti circostanti, per cui si stagliava candida a ridosso della montagna. Tra gli edifici dai tetti rossi e marroni, facevano capolino le chiome verdi degli alberi che punteggiavano le strade. Alberi che, con la Stagione del Vento ormai inoltrata, sfumavano in rosso e arancione. Ma ciò che vide Iskander fu ben diverso: neanche una foglia vedeva sui rami spogli e neri. Corrugò la fronte.

«Guardi lì, mio principe».

Mora indicò l’orizzonte, oltre le mura, dove si allungavano i campi. Anche quelli, in genere verdi e gialli, si erano tinti di un unico colore giallastro spento. Eppure quello era il campo di mais, quell’altro era di luppoli e fino a quella mattina erano entrambi belli verdi.

«Mora, chiama a raccolta i messaggeri. Mandateli nei campi, che scoprano cosa sia successo. Falli venire da me al più presto!»

L’uomo fece un inchino e schizzò nell’ubbidire subito al comando. Iskander tornò nel castello con Alinna appresso. Avrebbe voluto i suggerimenti di Borodan sull'accaduto, ma il Consigliere avrebbe perso ancora molto tempo con i signori delle casate. Non doveva agitarsi, forse non era nulla, magari era uno scherzo o un affronto. Non ci devo pensare, s’impose.

«Principe, aspetti» un’altra voce ancora lo bloccò sulle scale.

Iskander dovette fare un lungo sospiro. Era Tirevan, il suo Nono Cavaliere, tutto in armatura argentea e con un mantello grigio sulle spalle. Era un ragazzo poco più grande di lui, eppure già un Guerriero affermato.

«Sì?» esalò.

«Le devo riferire un accaduto» fece quello con spalle ben erette.

Non ci credo, ancora? Tuonarono i suoi pensieri.

«Abbiamo trovato una ladra giù nelle cantine. Cercava di prendere la nostra birra, principe. L’abbiamo rinchiusa nelle celle».

«Bene. Me ne occuperò in un secondo momento».

Si congedò sbuffando. Che razza di giornata era stata quella!

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