Iskander fissò lo specchio con il muso lungo.
La sua camicia era rigata da fasce colorate di blu, giallo, rosso e viola, ciascuna
era impreziosita da filo dorato. La cintura era ben stretta sul pancione che
sporgeva: da sotto sbucavano pantaloni larghi, che poi si stringevano alle
caviglie, intrecciate a loro volta dalle stesse strisce di stoffa ricamate per
trattenere gli stivali di cuoio, troppo rigidi ai piedi. Il colletto bianco sbucava
dalla camicia, aprendosi in drappeggi intorno alla testa. I capelli castani
erano legati alla nuca e in testa aveva la corona dorata e resa pomposa dalle
mille pietruzze preziose di tutti i colori.
«Sembro un barile di birra» sbottò.
«Non è affatto vero» Alinna lo disse con
tono severo. Si alzò dalla poltrona e andò alle sue spalle, poi tirò il
colletto verso l’alto. «Ha l’aspetto che deve avere».
Era una donna alta e minuta, eppure le sue
mani ossute erano forti. Era rigida in tutto, non solo nei modi, ma anche
nell’aspetto. Le rughe sul viso le tiravano le strette labbra e lo sguardo era
sempre torvo. Il naso era a punta e il collo troppo lungo e fine, portava i
corpetti allacciati dietro, tanto stretti che la vita era minuscola. Le gonne
si pompavano sotto il busto. Aveva poi quel modo di camminare con passi piccoli,
ma svelti, con le mani intrecciate sul vestito e con la schiena sempre eretta.
D’altronde era la sua educatrice e maestra. Iskander ne aveva ricevute di
bacchettate da Alinna!
Borodan era l’esatto contrario: un uomo non
troppo avanti con l’età, dal viso sbarbato e occhi celesti e gentili. A sua
volta legava i capelli, ormai bianchi, sulla nuca, indossava camicie di buona
fattura, ma in tinta unica, specialmente di nero o blu notte. Pure lui aveva la
pancia che sporgeva e si muoveva calmo, anche nel camminare.
«Ci deve fare l’abitudine, principe»
suggerì dall’altra poltrona.
«Si sbrighi con il tè, Consigliere. L’ora è
giunta!» squittì la voce di Alinna.
«Oh, sì, sì, ma certamente». Borodan
deglutì ciò che restava nella tazza e la fece tintinnare nel piattino, prima di
posarla sul tavolo, quindi si alzò accanto all’educatrice.
«Andiamo?»
Iskander guardò per l’ultima volta lo
specchio, detestava i suoi abiti, odiava anche quei momenti.
«Sì» disse. Non aveva scelta.
***
«Iskander dei VentoOrientale, principe di
Raisinberg e delle Terre Nordiche» fu così che Borodan vociò nella sala dei
banchetti, che si zittì all’istante. Iskander attese tre secondi, quindi entrò.
Le lunghe tavolate erano sprovviste di cibo, ma tutte occupate. Sentì gli
sguardi su di sé, mentre andava a prendere posto. Poi si sedette al centro in
modo che tutti lo potessero vedere e lui riuscisse a vederli a sua volta.
Borodan e i presenti si accomodarono subito dopo il principe.
La riunione con gli esponenti delle casate
si teneva in quella sala per ragioni culturali. Il re accoglieva i signori
delle terre, lì dove si pranzava, come se facessero parte della famiglia reale.
Così Iskander si trovò a guardare i capi più alti delle Terre Nordiche, signori
che riscuotevano i tributi, da cui trattenevano una piccola somma e
consegnavano il resto al reame. Erano gli stessi che governavano, in sua vece,
i villaggi e i campi coltivati, coloro che portavano la parola del re ai
sudditi e si impegnavano affinché la legge fosse rispettata.
«Dunque, chi e cosa reclama oggi?» domandò
il suo Consigliere.
Iskander contò tredici persone che si
alzarono in silenzio. Borodan fece cenno al primo di avvicinarsi.
«Barsh degli OcchiGrigi» si presentò il
ragazzone. «Principe, la nostra casata ha conquistato il Monte D’Argento, in
suo nome. Abbiamo subìto delle perdite e ci sono molti feriti. Per riprenderci
abbiamo bisogno di denari per acquistare armature, armi e cure».
Iskander voltò lo sguardo sul Consigliere,
che già trascriveva il tutto.
«Quanti denari?» disse il principe al
ragazzone.
«Ci occorrono 300 denari, principe. Siamo
quasi 500 persone».
Devi
dare, ma non dare troppo, ricordò la voce di suo padre.
«Sono troppi 300 denari. Dovrebbero bastarne
180 e manderò sette Curatrici con voi sulle montagne».
«Ma principe...» e prima che potesse finire
di obiettare, Borodan stava già in piedi a chiamare un altro. Barsh si piegò in
segno di rispetto e tornò a sedersi.
«Darumond dei Silenziatori» quel nome fece
correre un brivido a Iskander. Provò a non far notare il suo disagio di fronte
all’uomo vestito di nero dalla testa ai piedi. La sua bocca si vedeva muoversi
a malapena da sotto il largo cappuccio calato sulla testa.
«Principe… La barriera del suono è stata
eretta, impedirà ai LandeGhiacciate di varcare l’ultimo passo delle montagne o di
spiarci tramite gli Ascoltatori. È tutto» fece un inchino e si sedette.
Era una buona notizia, forse. Da quando suo
padre, re di Raisinberg, era morto in guerra alleato con la città di Tritico,
le casate si erano spaccate: avevano dichiarato guerra l’uno all’altro. Tutti
desideravano salire al trono, ma era Iskander il vero e unico erede del re. Forse
era troppo giovane, a sentire i signori. Era stato Borodan a muovere i fili
delle alleanze, aveva portato dalla sua parte quasi la metà delle casate. Le
altre si erano alleate con i LandeGhiacciate, i quali lo combattevano
dall’altra parte delle montagne.
«Igor delle PioggeRosse». Ecco un altro
nome che fece venire i brividi a Iskander. «Chiediamo i vigneti e i campi di
luppolo, che da sempre ci appartengono».
«Li chiedete per la settima volta» osservò
Iskander. «E per la settima volta sono costretto a rifiutare».
«Principe, quelle terre ci servono. Abbiamo
registrato un calo del 30% della produzione in questi anni!»
«Il principe ha parlato. La sua parola è
legge» si alzò Liviana delle MontiBurrascosi.
Ecco
che ci risiamo, pensò Iskander.
«Ha parlato a vostro vantaggio, mi pare»
Igor si voltò a fronteggiare la donna. Poi si presero a rimbeccarsi nel mezzo
della sala, come se non ci fossero altri presenti.
«Per le vostre terre vi abbiamo donato 700 Guerrieri
formati!»
«Guerrieri morti e sepolti, ce ne restano 70».
«Non è un nostro problema, se li avete
persi tutti».
«Se fossero stati così formati, come vi
vantate, di sicuro sarebbero ancora vivi» Igor piantò il pugno sul tavolo per
sottolineare le parole, ma Liviana non si scompose,
«Sarebbero vivi, se aveste avuto un
briciolo di strategia nel vostro sangue!» lei ribatté alzando il seno
prosperoso.
A quel punto tutti i presenti si misero a
vociare gli uni contro gli altri. Iskander roteò gli occhi. Il suo Consigliere
lo guardò male. Sbuffò e si alzò dal suo posto.
«SILENZIO!» gridò con tutto il fiato che
aveva in gola.
Tienili a bada, tornavano alla mente le
parole di suo padre. Fai finta di essere il loro padre e che loro siano i tuoi
figli. Li devi nutrire, accudire e salvare, quando è necessario. Ma devi anche
essere fermo nel saperli indirizzare.
«La mia decisione è presa. Che questa sia
l’ultima volta che sento la proposta da parte dei PioggiaRossa. Adesso, data la
vostra mancanza di rispetto, la riunione finisce qui. Sarà Borodan, il
Consigliere, a ricevere i vostri tributi e rapporti. Arrivederci».
Si voltò senza guardarsi alle spalle. La
sala scoppiò di proteste.
«Noi non abbiamo parlato!»
«La nostra richiesta!»
«Oh, ma che modi!»
Nel corridoio accanto alla sala, Alinna lo
aspettava con le braccia intrecciate sulla gonna. Lo guardò tagliente, ma non
commentò, poi lo seguì lungo il castello, con i suoi piccoli passi, che
facevano ondeggiare le gonne.
Iskander era furioso. Nulla era stato
facile da quando era salito al trono, tanto per cominciare, non era pronto.
Anche se suo padre gli insegnava fin da quando ne aveva memoria. La verità è
che aveva paura di tutti quei signori. Temeva che lo sgozzassero nel sonno,
come facevano i Silenziatori, o che bruciassero i campi: potevano allearsi
contro di lui e assediare la città, facendola morire di fame.
Con un brivido ricordò i suoi primi giorni
di regno: era stato costretto a tagliare la lingua a Mosca degli OcchiGrigi per
averlo offeso e per aver aizzato gli altri contro il nuovo principe. Iskander aveva
dato l’ordine e non aveva distolto lo sguardo, nonostante dentro si fosse
agitato: gli era salito il vomito, quando il sangue aveva imbrattato il
pavimento tra le grida dei signori nella sala, ma era riuscito a rimanere
immobile.
Sei
una statua, gli diceva il padre quando Iskander era bambino. Per correre
troppo era inciampato e dal bruciore era scoppiato in lacrime, nel cortile. Una statua non ha alcun sentimento e questo
fa paura agli altri. Tu sei una statua. Dentro puoi provare di tutto, ma fuori
nessuno lo deve sapere.
«Mosca degli OcchiGrigi!» aveva tuonato il principe
quattordicenne nella sala sconvolta. «Da oggi ti chiamerai LinguaTagliata. Non
sarai più un Signore di una casata. Ti sarà concessa la grazia di rimanere
nella famiglia, ma la dovrai meritare con la lealtà che, finora, non hai dimostrato.
Il tuo primogenito, Barsh, prenderà il tuo posto come capo degli OcchiGrigi,
sotto il mio potere. Se ti dovessi rifiutare, sarai esiliato dalle Terre Nordiche:
i tuoi discendenti perderanno le terre, la casata sarà dichiarata caduta e il
suo nome cancellato».
Mosca, con la faccia piena di sangue,
facendo versi incomprensibili di dolore o di chissà cosa avesse voluto dire, si
era gettato ai suoi piedi in un inchino tanto profondo da stendersi del tutto.
La sua casata fu salva, Barsh prese il posto del padre LinguaTagliata.
«Principe! Aspetti!»
Iskander si voltò con fastidio.
«Mora, che ti prende?»
Era un servo, un Signore che curava i
giardini del castello.
«Mi dispiace, mio principe» s’inchinò, ma
la voce era urgente. «È successa una cosa, altrimenti non l’avrei disturbata.
Ho atteso che usciste, deve vedere con i suoi occhi!»
Alinna aveva già storto il naso e iniziato
a protestare, quando Iskander alzò la mano. Qualcosa nella voce di Mora lo allarmò.
«Mostramelo!» ordinò.
L’uomo corse fino all’ingresso principale, svoltò
verso i portoni e si riversò in cima alla grande scala che scendeva fino alla
città sottostante. Appena Iskander comparve dietro, otto Guardie delle Porte
gli furono ai fianchi. La cosa lo infastidì, come sempre.
Raisinberg era una città costruita con la
roccia calcarea dei monti circostanti, per cui si stagliava candida a ridosso
della montagna. Tra gli edifici dai tetti rossi e marroni, facevano capolino le
chiome verdi degli alberi che punteggiavano le strade. Alberi che, con la Stagione
del Vento ormai inoltrata, sfumavano in rosso e arancione. Ma ciò che vide
Iskander fu ben diverso: neanche una foglia vedeva sui rami spogli e neri.
Corrugò la fronte.
«Guardi lì, mio principe».
Mora indicò l’orizzonte, oltre le mura, dove
si allungavano i campi. Anche quelli, in genere verdi e gialli, si erano tinti
di un unico colore giallastro spento. Eppure quello era il campo di mais,
quell’altro era di luppoli e fino a quella mattina erano entrambi belli verdi.
«Mora, chiama a raccolta i messaggeri.
Mandateli nei campi, che scoprano cosa sia successo. Falli venire da me al più
presto!»
L’uomo fece un inchino e schizzò nell’ubbidire
subito al comando. Iskander tornò nel castello con Alinna appresso. Avrebbe
voluto i suggerimenti di Borodan sull'accaduto, ma il Consigliere avrebbe perso
ancora molto tempo con i signori delle casate. Non doveva agitarsi, forse non
era nulla, magari era uno scherzo o un affronto. Non ci devo pensare, s’impose.
«Principe, aspetti» un’altra voce ancora lo
bloccò sulle scale.
Iskander dovette fare un lungo sospiro. Era
Tirevan, il suo Nono Cavaliere, tutto in armatura argentea e con un mantello
grigio sulle spalle. Era un ragazzo poco più grande di lui, eppure già un Guerriero
affermato.
«Sì?» esalò.
«Le devo riferire un accaduto» fece quello
con spalle ben erette.
Non
ci credo, ancora? Tuonarono i suoi pensieri.
«Abbiamo trovato una ladra giù nelle
cantine. Cercava di prendere la nostra birra, principe. L’abbiamo rinchiusa
nelle celle».
«Bene. Me ne occuperò in un secondo momento».
Si congedò sbuffando. Che razza di giornata
era stata quella!
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