Una luce accecante lo abbagliò. Taìs alzò
le braccia, ma non li portò in direzione degli occhi, rimase invece a guardare.
La donna si scompose in mille lucine, che si spostarono verso il suo petto. Il
calore che percepì consisteva nella fusione della figura femminile dentro di
lui.
Taìs aprì gli occhi e saltò a sedere.
D’istinto si toccò il petto all’altezza del cuore. Non sentiva più il calore
della sera precedente, ma era accaldato per via del sonno. Era stato tutto
reale o se l’era immaginato? Era sicurissimo che la sera prima fosse stato ben
sveglio. Ciò di cui dubitava, piuttosto, era della donna entrata nel suo petto:
quello doveva esserselo sognato.
«In piedi! Sveglia!» la voce di Berrend si
propagò per le sale.
La villa quadrata faceva il giro intorno al
cortile interno. Così ogni sala era collegata a un’altra, come un lungo
corridoio senza fine. Nella camera di Taìs erano in cinque, tutti sopra i dieci
anni: maschi e femmine insieme. Dormivano sul pavimento, perciò la mattina
dovevano solo piegare bene la coperta e lasciare la casa. Il corno li chiamava in
raccolta dalla piazza del mercato. Era l’ora di andare nei campi.
Ogni
volta che strappava patate o carote, la sua mente vagava nei ricordi. In genere
pensava alla mamma, si tuffava nel passato a ricordare la sua voce e le sue
storie. Ma quel giorno non ci fu verso di tornare indietro nel tempo. L’unico
pensiero che lo assillava era quella misteriosa donna della sera precedente.
Immortali. Cosa sapeva di loro? Poche cose:
erano vissuti tanto, tanto tempo fa, prima ancora della guerra e prima pure
della pace. Erano potenti, ricordava. Ma di cosa sapessero fare, non ne aveva
proprio idea. Ma tanto erano morti, si diceva. Perché avrebbe dovuto
riguardarsi da loro?
«Ho detto di non strappare le piante!»
Taìs trasalì, ma non fece in tempo a
prepararsi che la frusta lo colpì con violenza. Un brivido si propagò per tutto
il suo corpo. Si era distratto come uno scemo, tanto da dimenticarsi delle
patate.
«M-mi dispiace» soffiò senza alzare la
testa. Si infuriò con sé stesso… Che stupido.
«Oh, stai bene?» Nico lo guardò di
soppiatto, mentre Morik e la sua frusta si allontanavano.
«Sì, sì» Taìs tirò via un’altra patata.
«Sembri... Tipo da un’altra parte».
«Ho solo fatto un sogno strano».
«Ah, capito».
Certo che qualcosa non quadrava. Se erano
Immortali, perché tutti dicevano che erano morti? Perché quella donna aveva
parlato proprio di loro? E poi, come era comparsa lì, senza che lui la sentisse
arrivare? Ricordò il vento freddo e improvviso, che gli aveva messo paura. Era
accaduto poco prima che comparisse la donna. E ancora, quella luce… Non era
mica normale!
A metà mattinata una goccia cadde sulla
mano di Taìs e poi un’altra ancora. Nico, dal viso già tutto arrossato, si aprì
in un sorriso sdentato. Anche gli altri capirono che la pioggia stava per
arrivare. Il campo si riempì di gridolini.
«Continuate!» vociò Morik. «Ci mancava solo
questa. Sono due gocce. Non c’è bisogno di fermarsi. Al lavoro, forza, forza!»
Frustò l’aria per sottolineare il comando,
ma le nubi ormai si erano fatte nere e la pioggia scrosciò sulla terra.
«Maledizione! Va bene, scaricate le patate.
Ho detto: PRIMA SCARICATE. POI ANDATE IN CITTA’ SUBITO».
Sara
li raggiunse e così seguirono gli altri ragazzi nella pioggia. I loro piedi
nudi si infangarono fino alle ginocchia, ma loro corsero indifferenti tra le
risate generali. Almeno per quella mattina non sarebbero più tornati nei campi!
«Sara di Tritico, di Morgana e Jim» fece la
ragazza all’ingresso della città. La sentinella spuntò il suo nome sulla
pergamena accartocciata dalla pioggia.
«Nico di Tritico, di Morgana e Jim».
«Taìs di Tritico, di Lisa e Meran» fece a
sua volta. La guardia li lasciò passare. Quello era il modo per assicurarsi che
nessuno scappasse dalla città. Si diceva che alcuni ci avessero provato, ma non
era finita bene a sentire le storie di paura nella Casa degli Orfani.
«Quasi mezza giornata libera!» vociò Nico
tutto bagnato.
«Sì, però per il pasto ci vorranno ore»
Sara si toccò la pancia incavata.
«Che facciamo di bello? Andiamo a casa
nostra? Ci vieni, Taìs?»
Taìs amava andare da loro quando un
temporale anticipava la fine dei lavori, gli ricordava casa sua e l’ambiente
familiare. Ma in quel momento aveva altro per la testa. Non sapeva se parlarne
con loro. Forse lo avrebbero preso per scemo o gli avrebbero detto che aveva
semplicemente sognato.
«Per oggi no» borbottò. Aveva voglia di
stare solo con i suoi pensieri.
«Ah, va bene» bofonchiò Nico deluso.
«Allora ci vediamo al mercato per il pasto»
disse Sara. Ora si stringeva le braccia intorno alla pancia. Dalle labbra blu
si capiva che tremasse dal freddo.
«Sì, ci vediamo dopo».
Li salutò, ma non seppe dove andare. Con la
fronte corrugata e i capelli bagnati, tutti appiccicati alla fronte, vagò per
le vie inzuppate di acqua e fango. La sua mente tornò a pensare alla donna e
più ci pensava, più domande si faceva. Si fermò di fronte alla Casa dei
Sacerdoti. Oltre le porte di legno c’era l’albero, ma non la donna, ne aveva la
certezza. Non voleva che qualcuno lo vedesse scavalcare il muro crollato in
pieno giorno, lo avrebbero punito… Perciò andò oltre.
Intanto smise di piovere. Taìs ne aveva preso
di freddo con la maglia incollata alla pelle, che si faceva sempre più gelida
al minimo soffio di vento. Pensò di tornare indietro alla Casa degli Orfani o
da Nico e Sara. Ma a quel punto si bloccò, rendendosi conto dov’era. Aveva,
infatti, risalito la via principale e si trovava vicino al muro del castello.
Lì una grande torre, una delle due ancora in piedi, si alzava vertiginosa verso
il cielo. Non c’erano aperture per le finestre lungo le pareti di pietra
ingrigita dal tempo.
«La Torre dei Libri» disse a voce alta.
«Prima della guerra» gli diceva la mamma. «Chi
aveva delle domande andava alla Torre dei Libri, dai Sapienti. Loro conoscevano
tutte le risposte. Sapevano del grano, di quando maturava e quando doveva
essere seminato. Sapevano quando arrivava la pioggia e quando finiva la
stagione».
«E che altro sapevano?» gli domandava Taìs
preso dal sonno.
«Loro sapevano tutto, tutto quello che ti
puoi immaginare. Conoscevano la storia passata e antica, le leggende e le
storie vere. I Sapienti tramandavano la conoscenza del mondo grazie ai libri
che leggevano e scrivevano».
Taìs deglutì incerto sul da farsi. Due ante
di legno rinforzate dal ferro segnavano l’ingresso. Salì i tre gradini e spinse
la porta, era aperta. Il legno cigolò e l’aria calda gli scivolò addosso. Fu
così piacevole che lo spinse a entrare.
L’ambiente interno era grande e circolare
tanto quanto la torre stessa, che si alzava aperta fino al soffitto altissimo. I
balconi si affacciavano su ogni piano, seguivano le pareti curvate colme di
libri. L’aria calda era dovuta alle tantissime candele accese volte a
illuminare la torre senza finestre. Davanti a Taìs, al piano d’accesso, c’erano
scrivanie disposte su tre file: alcune erano occupate di libri, fogli e piume
da scrivano, mentre altre erano vuote, oppure reggevano delle candele. Pareva
che non ci fosse nessuno.
Taìs percorse il perimetro adocchiando i
libri sugli scaffali. Cerano volumi stretti, piccoli e enormi. Sul dorso
avevano scritte di tanti colori diversi, dal verde brillante al blu intenso. Lui
ne prese uno bello grosso. Fu più pesante, però, di quanto si aspettasse. Lo
aprì reggendolo con attenzione: le pagine ingiallite erano ricoperte di segni
neri, allungati e stretti. Talmente stretti che si domandò come qualcuno
potesse mai ricavarci una sola parola.
«Ragazzino!»
Taìs trasalì al punto che il libro gli
cadde dalle mani. Si girò di scatto verso la voce. Dalle scale era sceso un
signore: indossava una tunica bianca rigata da strisce dorate; i capelli grigi
erano legati sulle spalle, fermi in una coda; sul naso piccolo e stretto
poggiavano gli occhiali dalle lenti rotonde e incorniciate d’argento; la barba
scendeva liscia, a punta, fino al suo petto e copriva il sigillo che aveva al
collo: un cerchio fitto di incisioni concentriche. L’uomo fece un passo avanti con
lo sguardo torvo.
«Che diamine stai facendo? Volevi rubare?
Rispondi» lo sovrastò.
«N-no Signore, mi dispiace!» la voce
risultò isterica, tanto gli batteva il cuore.
«Allora cosa? La Torre è un luogo sacro.
Cercati un altro posto dove dormire. Non vorrai rovinare questo prezioso tesoro!»
E nel dirlo si calò a recuperare il libro
da terra che, caduto malamente, era rimasto rovesciato sulle pagine e alcune di
esse si erano piegate. Il Signore storse la bocca e provò a sistemarle.
Taìs si dispiacque per questo. Non voleva
certo rovinare i libri. Lui aveva delle domande, non era lì per sciupare tutto.
«M-mi hanno detto...» e prese aria per
trovare coraggio. «Che qui posso avere le risposte a tutte le mie domande».
L’uomo lo guardò dall’alto in basso.
«Una volta qui c’erano trenta Sapienti. Il
popolo prendeva appuntamento e riceveva le risposte alle sue domande. Ora, come
puoi vedere, sono rimasto solo io. E, in effetti, non ricevo mai nessuno.
Ebbene, giovanotto, che domande hai da pormi? Ma bada bene che non ho tutto il
giorno, il re mi sta aspettando, te ne concedo una e poi dovrò andare. Qual è
la tua domanda?»
Taìs si tormentò il labbro. Non era così
semplice trasformare in una sola tutte le domande che aveva. Mentre ci pensava,
il Sapiente schioccò la lingua dicendo: «Non ho tutto il tempo, te l’ho già
detto». E così Taìs si affrettò a parlare:
«Chi sono gli Immortali? Perché si dice che
non possono morire, però sono morti? Cosa possono fare? Tipo… Possono diventare
una luce intensa o comparire dal nulla? Esiste...»
L’uomo alzò il palmo e Taìs si morse la
lingua per fermarsi.
«Hai tante domande, giovanotto… Dunque vuoi
sapere degli Immortali. Sull’argomento ne sapevano di più i Sacerdoti, ma anche
di loro non è rimasto più nessuno».
Mentre lo diceva, si era alzato in volo. Taìs
non avrebbe dovuto meravigliarsi, d’altronde anche lui era un Volatile e un
giorno avrebbe fatto lo stesso, ma ne era capace solo chi era andato in guerra
o al fronte. Era la prima volta che quindi vedeva volare qualcuno da così
vicino.
Infatti l’aria intorno al Signore aveva
preso a vorticare e la sua veste si era mossa e sollevata. Poi le sue gambe
avevano lasciato il suolo: le aveva piegate, come se si fosse seduto a terra,
ma in realtà si alzò dal suolo, con la veste che gli ondeggiava intorno. La sua
figura andò in alto e siccome il Sapiente continuava a parlare, Taìs corse per
le scale e sui balconi per non perdersi il discorso.
«Avevamo deciso di lasciare la Cattedrale
aperta, ma gli sciacalli non hanno resistito nel derubarla. Spuntano come i
pidocchi nelle trincee, quei maledetti! Beh, l’abbiamo chiusa. Ah, ecco la
sezione “Immortali”, dunque, vediamo…»
Si era fermato a quattro piani di altezza
spingendosi verso il balcone e aveva steso le gambe, prima di poggiare i piedi
sul pavimento. Iniziò a tirare fuori libri e libroni. Taìs, con il fiatone per
la corsa, lo raggiunse in tempo per acciuffare i volumi, che il Sapiente gli
gettò tra le braccia.
«L’Epoca degli Immortali, di John
Kar. Il Cacciatore degli Immortali, questo deve essere interessante…
Il diario di Garavan Garasia. Poi L’Ultimo
Immortale di Uragada, del Sacerdote Supremo Faran Scia. Credo che anche
questo potrebbe esserti utile. Ah, ma sì, anche quest'altro. Penso che possa
bastare. Bada, però, ragazzo, non puoi portarli fuori dalla torre. Chiaro?»
Taìs, piegato sotto il peso dei volumi,
guardò il Sapiente con gli occhi spalancati.
«Ora devo proprio andare. Beh, cosa c’è?»
Sentì le guance prendere fuoco. Come
avrebbe potuto spiegare? Guardò le incisioni sulla pila sotto il proprio mento.
Di quei simboli non ne conosceva neanche uno. Non avrebbe saputo scrivere il
proprio nome, come avrebbe trovato le risposte?
«I-io, signore, non so leggere. Mi
dispiace».
«Ah» il Sapiente lo fissò a lungo, troppo a
lungo. Poi si sistemò gli occhiali sul piccolo naso.
«Se ti dispiace è già qualcosa. Errore mio,
l’ho dato per scontato. Ma di questi tempi... Va bene. Come ti chiami? Taìs… Allora,
porta giù questi libri e torna domani mattina. Ti insegnerò le lettere».
Il ragazzo si tormentò di nuovo il labbro.
«Signore, ecco, io non posso. La mattina
devo andare nei campi».
Il Sapiente roteò gli occhi al cielo.
«Nei campi. Certo. Ebbene, vedrò cosa potrò
fare. Vai, adesso. Il corno sta per suonare l’ora della razione giornaliera.
Lascia i libri qui, chiaro? Bene. A domani».
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