«Tu, tesoro mio, sei proprio un Figlio
della Guerra».
Era così che sua madre lo chiamava, anche
se il suo nome era Taìs, originario della città di Tritico. Sì, non portava
nomi di casate, perché non discendeva da una di quelle famiglie, di cui i
cantori narravano le gesta. Le persone “normali”, come le definiva ancora sua
madre, quelle semplici che vivevano in città o nelle campagne portavano il nome
del luogo, in cui erano nati.
Figlio della Guerra era l’appellativo
datogli da lei ogni volta che Taìs non abbassava gli occhi di fronte a ciò che
la donna non sopportava. Succedeva quando vedeva un neonato senza vita poggiato
all’uscio di una casa o quando un vecchio crollava lungo la via e giaceva lì,
morto di stenti. Per Taìs era tutto ordinario: non avere cibo o calze, abiti o
mantelli, vedere bambini con le ginocchia storte e la pancia deforme. A volte
guardava anche le sue gambe sperando di non vederle distorte e pensava che
sarebbe stata solo questione di tempo… E magari, era lui quello strano, se non
aveva ancora quell’aspetto.
Per Taìs, invece, era strano credere ai racconti
della madre. Era difficile immaginare cosa volessero dire: pranzo o cena, la
città piena di gente e commercianti, la presenza di tante tende colorate da
riempire l’intera piazza durante il mercato, oppure pensare che una volta tutti
vestissero abiti dai toni vivaci e si innalzassero in volo sulle teste dei
passanti. Quello era strano per Taìs, che era nato durante la guerra e non
aveva mai vissuto in modo differente.
«Avanti, avanti, avanti!» vociò Morik, il
guardiano dei ragazzini. La voce lo destò da quei pensieri. Si strofinò la
fronte con il braccio sporco, poi gettò la mano nel terreno sotto la pianta: le
radici gli suggerirono la via, così tirò fuori una piccola patata. La buttò
nella cassetta e riprese.
«Non strappate le piante, vi ho detto!» Morik,
a tre file di distanza, sbraitò contro due ragazzetti, che chinarono il capo
senza smettere di lavorare.
«Oh issa!» Nico tirò su la sua cassetta.
Poi malfermo sotto il peso, si diresse al deposito.
Taìs guardò la sua, ne mancavano poche per
arrivare all’orlo, tantissime per finire la raccolta e troppa sarebbe stata
l’attesa per la razione di cibo. Nico tornò al suo fianco madido di sudore con
le guance arrossate e i riccioli biondi incollati alla fronte sporgente. Era
tutto coperto di terra. Lo stesso aspetto che Taìs immaginava di avere. Non che
gli importasse, piuttosto era il prurito a infastidirlo.
Anche quello era normale per lui:
raccogliere le patate, il grano, le cipolle o le carote, secondo il periodo
stagionale. Detestava farlo, ma non aveva scelta. Era un lavoro faticoso,
specialmente quando faceva ancora caldo e lui era costretto a stare a quattro
zampe nei campi. Le patate pesavano troppo e le frustate facevano male.
Si alzò a sua volta con la cassetta piena.
«Ohi, aspetta» Nico lo seguì. Arrivava alla
spalla di Taìs piccolo com’era, tanto che per sostenere il peso aveva piegato
le ginocchia. Taìs strinse i denti a sua volta. Il tempo di arrivare al
deposito e già boccheggiava, buttò a terra la cassetta davanti all’ingresso del
sotterraneo. C’era la fila di bambinetti in attesa.
«Terzo viaggio?» domandò Sara, la sorella
maggiore di Nico. Portava i capelli biondi intrecciati sulle spalle ed era
rossa in viso. La sua casacca aveva un nuovo rammendo, perché il giorno prima
se l’era strappata nelle piantagioni. Teneva una cassa piena tra le braccia.
«Mmm» fece Taìs.
Nico aveva il broncio. La sorella lo spinse
con il gomito.
«Altri due viaggi e non ci pensi più»
sorrise.
«Ma se abbiamo appena cominciato!» sbottò
il fratellino.
Lei alzò le spalle, ma fu il suo turno.
Scomparve nel buio e rispuntò poco dopo con la cassetta vuota. Fece loro un
cenno e tornò nella sua fila.
«Vai tu» disse Taìs.
Nico si abbassò a riprendere la cassa, ma
gli scivolò dalle mani e le patate ruzzolarono ai suoi piedi.
«Tu, bamboccio che non sei altro!» Morik
arrancò a grandi passi con la faccia tutta a chiazze rosse dentro la barba
scura. Due occhi stretti e cattivi si piantarono su Nico.
«Colpa mia!» esclamò Taìs, che si gettò per
terra a raccogliere i tuberi.
«Moccioso!» il guardiano fu alle sue
spalle. Taìs strinse i denti, la frusta lo colpì alla schiena facendogli
sfuggire un gemito.
«Non accadrà più» disse dato che il secondo
colpo non arrivò. Il dolore gli fece venire le lacrime agli occhi.
«Bada bene, infatti! Allora? Che fate
ancora qua? Via, andate alle file, forza!» stava già vociando contro gli altri.
Nico s’inginocchiò a sua volta, poi gli
passò un paio di patate.
«Non dovevi» tirò su con il naso.
«Sono più grande io» Taìs s’imbronciò.
Si alzò con la cassetta piena e penetrò
nell’ombra del sotterraneo. Il magazzino non era altro che una grotta scavata
sottoterra. Il cumolo di patate era già alto quanto lui. Svuotò la sua cassetta
e andò a riprendere il posto nella fila.
La mamma gli raccontava che da bambina non
era obbligata a raccogliere le patate, perché aiutava i nonni al mulino e
quando scappava a giocare non si beccava la frusta come punizione. La sera si
riunivano davanti al fuoco a raccontare storie sugli Immortali. Anche i soldati
che tornavano dal fronte perché feriti, mutilati, ciechi o sordi, parlavano del
passato. Fino a quindici anni, i bambini non andavano a studiare: dopo potevano
fare gli apprendisti, offrire servizio al castello del re, iniziare
l’addestramento per essere Guerrieri o recarsi alla Torre dei Libri per
diventare Sapienti. Taìs si chiese cosa avrebbe potuto fare lui, se fosse nato
prima della guerra.
Quando Morik suonò il corno, ovvero il
segnale che mezza giornata era finita, Taìs era già a pezzi. Trascinò i piedi
nudi dietro gli altri ragazzini per svuotare le loro cassette e poi
s’incamminarono tutti verso il castello. Lungo la strada si unirono a loro
ragazzi e bambini: chi giungeva dai campi delle cipolle e chi da quelli di
grano. Nessuno aveva voglia di parlare. Persino i pensieri lo lasciarono in
pace, stanco com’era.
Tritico era una città di grano e
coltivazioni: un rudere di pietra e legno chiuso da alte mura grigie e coperte
di muffa. La zona est era crollata e distrutta. Delle cinque torri che
sovrastavano la piana, ne rimanevano solo due. Per le vie la ghiaia era smossa
e ora si mischiava con il terriccio secco o il fango nelle giornate di pioggia.
Le abitazioni a ridosso delle mura erano centinaia: ammassate vicine, strette e
alte, ma ormai disabitate. Così come quelle abbandonate che stavano ai piedi
del castello, più spaziose e a tre piani.
Taìs seguì i ragazzini lungo le vie. A loro
si unirono altri cittadini vestiti di stracci, scalzi e con le ossa sporgenti:
erano perlopiù vecchi, ciechi e mutilati. La massa si spinse fino alla zona del
mercato davanti a un grosso capannone di legno. Le cuoche stavano già
riempiendo le ciotole davanti ai calderoni.
«Ancora cipolla» parlò Sara e storse il
naso.
Si misero in fila per avere la loro
razione.
«Che ci fanno con le patate, allora?» bofonchiò
Nico alle spalle di Taìs.
«Se le mangia il re» sbottò Sara.
«Ssh» il ragazzone davanti a lei si voltò a
guardarla male. «Non dire queste cose a voce alta».
«Ma è vero» lei abbassò il tono. «Dove
vanno a finire le patate e le carote? E il mais dell’anno scorso? Oppure, tu
hai mai mangiato del pane?»
«Ai soldati» rispose lui in tono secco e
diede loro le spalle.
Taìs deglutì. Era vero che non ne poteva
più della zuppa di cipolla, ma lo stomaco ruggiva per la fame. Prese la sua
porzione, una ciotola tanto piccola, che gli copriva a malapena il palmo della
mano. Poi andò a sedersi sugli scalini con Sara e Nico.
«Sì, ai soldati!» lei sbottò con occhi
stretti. Quando scosse la testa la sua treccia sferzò l’aria. «Scommetto che
quelli crepino di fame, peggio di noi».
«Che ne sai?» gli sfuggì. Si concesse un
piccolo assaggio di zuppa e lo trattenne in bocca. Immaginò di averne le guance
piene, poi aspettò fintanto che la lingua non divenne fredda. Solo allora si
permise di deglutire, la bevve piano, così che potesse durare più a lungo.
«Hai sentito di quel soldato tornato
l’altro ieri?» Sara si sporse per raccontare.
«Quello senza braccio?»
«Eh, sì, quello. Beh, ha raccontato che giù
in trincea stanno da schifo, nel fango e con i pidocchi. Dormono con i cadaveri
e anche la loro zuppa è di cipolla, però andata a male!»
«E tu come fai a saperlo? Ci hai parlato?»
«Macché… Lo sai che le Curatrici hanno la
lingua lunga, le ho sentite giù al fiume che parlavano con le lavandaie».
«Allora chi mangia le patate e le carote?»
Nico aveva bevuto la sua zuppa tutta d’un fiato e ora guardava la ciotola vuota
con sguardo deluso.
«Ve l’ho detto» Sara alzò il mento verso il
castello del re. «Se li mangiano loro».
Il corno suonò. Andarono a lasciare le
ciotole alle cuoche e si divisero. Sara si diresse dalle lavandaie, con le
femmine, mentre Taìs e Nico andarono in direzione nord della città, verso la
Torre di Guardia. Erano Figli della Guerra, ciò che toccava a loro era
l’addestramento. Se fossero nati prima, chiunque si sarebbe opposto per la loro
giovane età. Taìs era nato nell’epoca sbagliata, perciò era normale anche
quello. Egli menò con la spada di legno il manichino imbottito di paglia, tirò
con l’arco, corse intorno al campo di sabbia, ripeté tutto tre volte e sudò come
un dannato fino al tramonto. L’unica cosa positiva, si diceva, è che poi sono
troppo sfinito per pensare.
Accompagnò Nico a casa al ridosso del
perimetro di Tritico. Le baracche accanto erano crollate: quella a sinistra era
stata a suo tempo di Taìs, distrutta dai Volatili, che erano giunti dal cielo.
All’epoca lui era piccolo, aveva tre o quattro anni. La mamma lo aveva portato
al riparo in cantina sotto il pavimento della casa, ricordava ancora il rombo
nell’aria, le esplosioni e la polvere che aveva inghiottito le vie per
settimane intere. Di casa sua erano rimaste soltanto le macerie.
«Nico, tesoro mio» così salutò la madre di
Sara e Nico. Anche lei aveva i capelli biondi, che portava raccolti in trecce.
Era magra, ma dalle guance grandi, che il figlio aveva ereditato. La donna lo
abbracciò e gli accarezzò la testa. «Stai bene? Sei stanco? Andiamo a riposare,
ti racconterò qualcosa. Buonanotte, Taìs. Porta i miei saluti a Berrend».
Portò Nico in casa e chiuse la porta
malconcia. Taìs sospirò, oltre il vetro opaco della finestrella poté vedere la
Curatrice mettere sulle spalle del figlio un mantello. Lui già dormiva sulla
sedia. Poi vide anche Sara, sparire dietro una porta.
Sospirò di nuovo.
Una
volta anch’io avevo una mamma, pensò allontanandosi.
Sì, perché un giorno erano arrivati dal
castello al mercato dei signori vestiti con abiti colorati e pesanti, senza
rammendi. Il Sapiente del re della Torre dei Libri aveva srotolato un grande
foglio giallastro e aveva letto le parole a gran voce, circondato dai soldati.
Il re chiamava alla guerra anche le donne e tutti gli uomini rimasti, compresi
i ragazzi che avevano compiuto quindici anni. Era stato fatto il nome di sua
mamma. Lei lo aveva stretto, aveva singhiozzato e poi aveva pianto per tutta la
notte, disperata. Taìs non l’aveva mai vista piangere così tanto.
«Non ti preoccupare, mamma» le aveva detto.
«Io farò il bravo e Morik non mi frusterà. Tu tornerai e io sarò qui a
aspettarti». Lei aveva pianto ancor più forte. Taìs ne comprese il motivo solo
la stagione successiva: mamma non sarebbe tornata. Il Sapiente lesse il suo
nome al mercato, tra i caduti. Da quel giorno Taìs fu preso da Berrend, lo
zoppo alla Casa degli Orfani, una vecchia villa di una casata ormai decaduta.
Nella stanza c’era il pavimento di legno, più comodo della pietra, per
dormirci. La paglia non bastava per tutti loro, serviva ai neonati al piano
inferiore. Taìs, però, non aveva alcuna voglia di tornarci, così deviò in una
via buia.
Nel silenzio tombale percorse le strade deserte.
Le case facevano una brutta ombra contro il cielo che s’incupiva. I suoi piedi
nudi e sporchi non facevano alcun rumore sulla ghiaia sparsa. Egli giunse fino
a un edificio molto più grande degli altri. Si apriva in un grande arco con le
porte sbarrate. Il lato destro era stato bersagliato, quindi le mura erano
crollate. Una volta era la Casa dei Sacerdoti. Lo aveva appreso dai soldati
mutilati che ogni tanto, la sera, si riunivano al mercato. Ma non esistevano
più i Sacerdoti in città, forse erano tutti morti.
Taìs si arrampicò sui massi crollati, che
si erano riversati fino alla strada. Alcuni ciottoli ruzzolarono giù sotto il
suo peso. Lui afferrò le pietre più pesanti per reggersi sulla pendenza, si
diede un’ultima spinta e raggiunse la cima. Si meravigliò, per l’ennesima
volta, alla vista dell’albero.
Si trovava proprio dietro ai portoni
chiusi, per cui dalla strada non si vedeva. Eppure era grande, raggiungeva il
terzo piano. Aveva foglie tanto larghe, che ci si poteva coprire la testa. Al
posto dei frutti aveva piccole palline, che Taìs aveva provato a mangiare, ma
talmente amare che la bocca si era riempita di saliva, così le aveva sputate,
schifato. La notte quelle palline prendevano vita, o meglio, s’illuminavano da
sole. Erano gialle e celesti e coloravano con sfavillio l’erba selvatica ai
piedi dell’albero. Quel posto era così strano, che Taìs non ne aveva parlato
con nessuno.
Si piegò e con il sedere scivolò sui
ciottoli nel cortile interno. Raggiunse l’albero e poggiò le spalle contro di esso.
Lì si sentiva al sicuro. Era un posto tutto suo: lontano dal mondo, dai campi,
dalla frusta di Morik, dalla Torre di Guardia, dalla Casa degli Orfani con i
suoi pianti notturni e dal bastone di Berrend. In quel luogo i suoi ricordi si
facevano più vividi.
«Prima in città c’era un gran baccano»
raccontava sua mamma. «Ogni mattina arrivavano i commercianti e andavano al
mercato, dove montavano le tende. Dalle cucine si sentivano odori tanto buoni,
che ti veniva l’acquolina in bocca. Dalla città di Abadira portavano carne di
maiale e di manzo, latte e burro. Un bambino piccolo come te andava giù alla
Torre dei Libri a studiare numerica e lettura».
«Anche tu hai studiato, mamma?»
«No, piccolino. La mamma non ha potuto. I
nonni avevano il mulino in gestione e ci volevano tante braccia per fare in
tempo la farina».
«E papà?»
«Neanche lui. Fin da bambino aiutava il suo
papà a trasportare sacchi di farina fino al castello del re. Fu così che ci
conoscemmo».
«Me lo racconti?»
«No, piccolo, te lo racconterò domani.
Adesso dormiamo, mamma è un po’ stanca».
Taìs aprì gli occhi e corrugò la fronte.
L’immagine della madre svanì dalla mente. L’aria si era d’improvviso gelata
intorno a lui, ma fu un soffio così inatteso che lo fece trasalire. Si strinse
le ginocchia tra le braccia e si guardò intorno. Il silenzio lo circondava, le
luci gialle e azzurre erano lì a far luce su di lui, mentre il resto era
inghiottito dal buio. Fu scosso da un brivido, forse per il freddo o per quella
sensazione d’incertezza.
Non
dovrei essere qui, si disse. Scattò in piedi, era meglio tornare. Ma
qualcosa parve muoversi dietro al grosso tronco.
Il cuore gli balzò nel petto. Avrebbe
voluto scappare via, ma gli sarebbe rimasto il dubbio, se non si fosse
immaginato tutto. Non avrebbe più avuto il coraggio di tornare quindi sarebbe
stato meglio dare un'occhiata.
Fece il giro del tronco a passo lento e
senza far rumore. Sporse la testa oltre e... C’era qualcuno!
Era una donna seduta contro l’albero, dalle
trecce bionde, talmente lunghe che giacevano ai suoi lati, come serpenti tra
l’erba. Era fasciata da stoffe ocra, ricamate con fili dorati. Quando sollevò
lo sguardo su di lui, Taìs notò che aveva un occhio color ambra e uno azzurro.
«Non ti farò del male» disse la donna con
voce flebile, poi sorrise e prolungò il braccio nella sua direzione. Taìs non
seppe cosa fare.
«Come sei venuta?»
«Come ti chiami?»
«Taìs. Taìs di Tritico».
«Ciao Taìs, siediti qui al mio fianco.
Fammi compagnia. Che ci fai qui, sotto quest’albero?»
Fece come le disse, con il cuore che ancora
batteva.
«L’ho scoperto per caso. Mi piace stare qui
da solo».
«Piace tanto anche a me».
«Ma non ti ho mai vista».
Lei sorrise. Guardò le lucine tra le grandi
foglie.
«Che hai, stai male?» domandò, visto che
lei non aveva risposto.
«Dimmi Taìs… Se potessi esprimere un
desiderio, proprio adesso, e potessi avere qualsiasi cosa… Cosa chiederesti?»
Taìs fece una smorfia. Ma che stava dicendo? Lei però lo guardò con i suoi occhi strambi.
Qualcosa doveva pur dire.
«Che ne so! Vorrei del cibo. Sì, vorrei
mangiare qualcosa di buono come il pane o il latte. I soldati dicono che il
miele sia la cosa più buona mai creata. Non l’ho mai provato, ma se fosse vero,
allora vorrei del miele».
«Tutto qua? Non c’è altro che ti viene in
mente?»
Forse era un gioco? Taìs si sentì a
disagio.
«Vorrei che tornasse mamma» cambiò il tono.
«E vorrei che avessimo casa nostra, come prima».
La sconosciuta gli sorrise ancora. Poi la
sua mano esile si appoggiò sul torace di Taìs. Fu un gesto gentile, ma
inatteso.
«Il tuo nucleo è dormiente, ma il tuo cuore
sembra puro. Dimmi, sai chi sono gli Immortali?»
«Quelli che vivono per sempre, coloro che
non possono morire».
«Sì, proprio quelli. Tu preghi, Taìs? Hai
mai pregato?»
Scosse la testa in risposta.
«Non so come si fa» si giustificò.
«Forse è meglio così» disse lei sorridendo
ancora.
Tacque, ma la sua mano rimase lì dov’era.
Taìs sentiva il calore del suo tatto. Da quando era morta la mamma, nessuno lo
aveva più toccato, tranne la frusta o le Curatrici. Solo che si sentiva strano
insieme a quella donna che non conosceva.
«Io dovrei andare» disse. Lei non rispose,
anzi, il suo corpo prese a fare luce come le palline dell’albero. Le braccia e
il viso s’illuminarono di mille lucine.
«Taìs di Tritico» disse lei avvolta dal
bagliore, che si fece sempre più intenso, tanto che Taìs dovette stringere gli
occhi. «Esistono Immortali buoni e Immortali cattivi. Riguardati da
quest’ultimi, sempre».
Detto ciò, la luminosità si fece troppo
abbagliante. Taìs serrò gli occhi e si coprì il viso con le braccia. Il tocco
sul petto si fece strano: un’immensa ondata di calore si propagò da lì verso
tutti i muscoli del suo corpo. Abbassò le braccia quando capì che la luce era
svanita. Non c’era traccia della sconosciuta: il cortile era di nuovo al buio e
silenzioso. Non sembrava aver mai ricevuto quella visita.
Eppure il torace di Taìs bruciava, tanto
era il calore che sentiva dentro.
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