Sulla città di Roccafard, capoluogo degli
Elettri e del buon vino, era scrosciato un forte temporale. Il pomeriggio si
oscurò sotto le grosse nubi e l’acqua si rovesciò sulle strade con violenza.
«E scesero la notte e le tenebre, e
venne la morte a portare pace» canticchiò Krista rimembrando un’antica
filastrocca.
Il temporale era perfetto per lei. La gente
era corsa a chiudersi in casa, le guardie fradicie nelle loro armature, non
vedevano più in là di un metro dal proprio naso, le loro torce si erano spente.
Ciò le permise di percorrere il margine del fiume sul terreno scivoloso, senza
essere individuata. L’acqua stessa, ormai in piena, copriva il suono dei suoi
passi. Il fiume correva fino alle mura del castello e poi veniva inghiottito dallo
stesso maniero. Un arco sbarrato si apriva per lasciar passare l’affluente
nelle viscere dell’edificio. Il corso d’acqua percorreva il sotterraneo per poi
gettarsi nel vuoto, oltre il castello, in una vertiginosa cascata.
Krista conosceva bene quel passaggio, ma
prestò comunque molta attenzione. L’acqua infatti, dato che non pioveva da mesi,
si era abbassata e il margine del fiume si poteva percorrere fino alle mura del
castello. Ma a quel punto il dislivello si faceva troppo grande. Krista scivolò
sul fango verso il basso. Il temporale stava già gonfiando il canale. Presto
toccò l’acqua con i piedi: era gelida, come immaginava. Prese un grosso
respiro, si strinse la corda della sacca al collo e si gettò dentro. La pelle
bruciò venendo a contatto con l’improvviso gelo. Krista strinse i denti a bocca
chiusa, si lasciò trasportare dalla corrente e batté contro le sbarre. Nel
buio, immersa fino alla testa, tastò il ferro e fece presa per scendere più in
basso. Lì trovò la sbarra rotta e sgusciò in quel punto.
Riemerse e il suo respiro fece eco. La
corrente la stava già trasportando oltre. Richiamò la sua energia e percepì il
calore diffondersi nel petto. Intorno a lei l’aria vorticò fino a sollevarla in
alto e si spinse sul bordo. Il vento che si propagava dal suo corpo sfiorò il
pavimento e rimbalzò, facendole capire quando discendere nel buio pesto del
sotterraneo. Toccò terra e la sua energia svanì. Fece due passi con aria incerta,
tastò la parete e la percorse con la mano, sentì che curvava: quello doveva
essere uno dei tanti pilastri che reggevano l’arcata. Udì l’eco dei passi
giungere da qualche parte poi sgusciò dietro giusto in tempo.
La torcia illuminò la caverna: le arcate si
alzavano al soffitto e si curvavano per piegarsi dall’altra parte. Il fiume era
stretto tra le pietre squadrate del marciapiede coperto di melma e muffa.
Krista sgocciolava, tanto che ai suoi piedi si era aperta una pozza e le gocce
tintinnavano al suolo. Sperò che il fiume coprisse quel rumore, intanto i passi
si fecero più vicini. Comparve infatti una guardia del castello. Lei si sporse
per guardarla: indossava l’armatura argentea, mezza coperta dal mantello blu
intenso, sul petto aveva una saetta biforcuta, dello stesso colore della cappa,
i capelli erano chiari sparsi sulla testa, senza barba e copricapi. Avanzò
nella sua direzione.
«Cosa porti?»
«E tu, in cambio?»
Krista sorrise maliziosa, mentre si
rimetteva in piedi. Raccolse i ricci biondi con le mani e li strizzò sul
pavimento. Sciolse quindi il nodo al collo e poggiò la sacca ai suoi piedi. La
stoffa era fradicia, ma il rivestimento interno di pelle aveva fatto il suo
dovere, ne uscì una pagnotta ben asciutta e la mostrò alla guardia.
«Pane» soffiò il ragazzone. Benché il suo
tono fosse neutro a Krista non sfuggì l’improvviso lampo nei suoi occhi
celesti. Il tizio prese la pagnotta e se la rigirò tra le mani, la annusò e
chiuse gli occhi, come per godersi il sapore piuttosto che l’odore stesso.
«Quante ne hai?»
«Venti pagnotte. E qui ho dello zucchero». E
tirò fuori un’altra piccola sacca di pelle.
«Vorrai ancora del vino. Mezzo barile».
«Mezzo barile?» Krista s’innervosì. «Uno
intero, come minimo».
«Il pane si consuma in fretta».
«Lo zucchero no».
«Il pane non ci sazia abbastanza».
«Il pane lo potete conservare».
Era un giochetto, a cui Krista si prestava,
perché sapeva che alla fine avrebbe vinto, anzi, lo sapevano entrambi: contrattare
faceva parte dei piani e ciascuno di loro desiderava guadagnare. Ma Ziran dei
DoppiaSaetta sapeva da tempo, che con lei ci fosse poco da fare, infatti,
sbuffò e tornò sui suoi passi. Ricomparve reggendo un barile tra le braccia.
Non era poi tanto grosso, Krista lo avrebbe fissato alle spalle con le corde. Lui
lo poggiò ai suoi piedi.
«Ti devo dire una cosa» parlò, mentre
prendeva in cambio la sacca con il pane. «Questo è l’ultimo che abbiamo».
«Mi prendi in giro?» Krista sbottò così
forte, che l’eco si propagò sulle loro teste. «Che diamine vuoi dire, eh?»
«Ti dico che non ne abbiamo più. L’ultimo
raccolto è andato male. Per il prossimo ci vorranno due o tre stagioni. Tutto
il vino è stato confiscato dai signori. Fattelo bastare».
Krista digrignò i denti. Quella proprio non
ci voleva. Si era data parecchio da fare per corrompere le cuoche di Tritico a
darle del pane sottobanco e in cambio aveva portato loro una dozzina di uova.
Grazie al pane otteneva il vino e soltanto dopo i denari. Tolto il vino, come
avrebbe guadagnato?
«Se mi vuoi rivedere, pensa a qualcosa che
mi possa servire» lo avvertì.
Ziran strinse gli occhi.
«Va bene. Vedrò cosa posso fare».
«Stesso posto, stessa situazione» salutò
Krista.
Strinse la corda intorno al barile e la
intrecciò in diversi nodi, affinché il carico non le scivolasse. Se lo portò quindi
sulla schiena e si allacciò le estremità intorno al collo e alla vita. Dentro
il corpetto di pelle si era cucita una tasca segreta. Da lì tirò fuori un
talismano: un cerchio di metallo disegnato da incisioni geometriche, in cui s’incastrava
una sfera bluastra. Lo strinse nella mano e, con un ultimo cenno di saluto, si
gettò nel fiume.
La corrente la travolse e con rapidità la
portò oltre il sotterraneo fino al vuoto. Si sentì sbalzare fuori nel cielo
nero e iniziò a precipitare seguendo la cascata. Ebbe un fremito di paura e di
eccitazione a vedere la sagoma degli scogli farsi vicina. Premette forte il
talismano con le dita: un lampo si propagò dalla mano e un istante dopo svanì
nel nulla.
***
Comparve sul pendio di una fitta foresta, talmente
fitta che si faceva già buio. Il terreno aveva una pendenza tale che dovette
aggrapparsi al primo albero sotto tiro per non rotolare giù, dato il peso del
barile. Inoltre era fradicia fino alle mutande e ancora le batteva il cuore per
l’adrenalina.
«Che lavoro ingrato» disse alla foresta.
Aggrappata ancora al tronco, richiamò la
sua energia. Il calore si propagò dal petto verso tutto il corpo sgusciando fuori
dalla sua pelle sottoforma d’aria. Il vortice le scompigliò i capelli,
strappando via le gocce che aveva. Pochi secondi dopo era perfettamente
asciutta. L’ammasso dei ricci biondi le ondeggiò sugli occhi. Solo a quel punto
fece forza con le braccia e, ritrovato l’equilibrio, s’incamminò.
Poco più in alto, nel mezzo della fitta boscaglia
e di rori spinosi, si ergeva una scura e vecchia capanna di legno, tanto da
confondersi con la circostante vegetazione. Era così ben nascosta che solo chi
la conosceva poteva sperare di trovarla. Krista la raggiunse e, senza chiedere il
permesso, spinse la porta cigolante marcita dal tempo e le intemperie. Dentro
l’aria era viziata, sapeva di tabacco, di cenere spenta e di vino stagionato.
C’era solo una candela a fare luce nello stanzino impolverato, poggiata sul
tavolino rotondo al centro dell’ambiente. In un angolo c’era il camino spento,
davanti a esso un giaciglio per dormire fatto di vecchie stoffe e stracci. Due
credenze aperte mostravano barattoli e cesti sull’altro lato. L’arredamento
finiva lì.
«Ohi, sono questi i modi di accogliere un ospite?»
sbottò Krista con le braccia incrociate sul petto.
L’ammasso di stoffe davanti al camino si
mosse. L’uomo borbottò per il disturbo, quindi s’issò in piedi. Era grande e
grosso, tanto che lo stanzino parve farsi più angusto: aveva il viso coperto di
barba scura e intorno alla testa un ammasso di capelli annodati, una cicatrice
gli tagliava il sopracciglio di netto, sull’altra guancia aveva la pelle
accartocciata dalle fiamme. Sotto il mantello rattoppato che si mise sulle
spalle, Krista lo sapeva, recava altre cicatrici, in ricordo delle vecchie
battaglie.
«Dammi qua» aveva la voce ruvida, come il
suo aspetto. La figura si sedette sull’unica sedia presente. Krista poggiò il
barile sul tavolo, ma quando lui provò a prenderlo, lei lo trattenne.
«Questo è l’ultimo». E attese la sua
reazione.
Gli occhi grigi, tanto chiari che pareva
non avere le iridi, si strinsero. Le rughe intorno agli occhi si fecero più
marcate.
«Come l’ultimo?»
«Così mi hanno detto».
Arghemar strinse i pugni sul tavolino.
Krista fissò quelle grosse mani. Si chiese, per l’ennesima volta, come avesse
fatto un simile Guerriero a ridursi in quello stato. Una volta era il più
potente e famigerato dell’intero pianeta, i re si litigavano per averlo al loro
servizio. Aveva viaggiato attraverso tutte le terre conosciute: dalle piane
alle montagne, alle terre dei fiumi fino agli oceani in burrasca. Eppure eccolo
lì abbandonato ai suoi vizi, tanto riservato che nemmeno una come lei, che
altrettanto aveva viaggiato e di storie ne aveva sentite, sarebbe mai riuscita
a capire cosa gli fosse successo di così grave, da rinchiudersi in quel buco
sperduto del mondo.
«Niente più vino» vibrò la sua voce.
Krista incrociò le braccia.
«Per adesso hai questo. Dovrebbe bastarti
per un mese».
«Un mese? Non ce ne farò neanche mezzo».
«Allora bevi troppo».
Lui la guardò torvo poi portò la mano
dentro il mantello e buttò sul tavolino un sacchetto. Il metallo dentro di esso
tintinnò. Ecco a cosa servivano tutti quei giri a Krista e Arghemar era uno dei
pochi che possedeva ancora dei denari. Di sicuro, non sarebbe stato con il
baratto, che li avrebbe avuti… Si chiese come poter fare per non perdere quel
giro redditizio.
«Il vino di Eklettica, non ti sta bene?»
propose.
«Fa schifo».
Arghemar prese una coppa in ceramica dalla
credenza e stappò il barile, che Krista aveva portato. La riempì fino all’orlo
e, senza tanti complimenti, se la scolò tutto d’un fiato.
«Non esiste vino più buono di quello di
Roccafard».
Krista non amava il vino, ma i denari, sì.
E per guadagnare il denaro era necessario conoscere il valore delle merci. Sul
mercato, il vino di Roccafard era il più costoso dell’intero pianeta. Doveva
essere buono come il Guerriero diceva.
«Ti porto il tabacco, la prossima volta»
disse, ma la sua mente correva in cerca di nuove idee. Avrebbe perso grosse
somme di denaro, vendendogli solo quello. Ci doveva essere qualcosa da
sostituire con il vino! Di sicuro Arghemar avrebbe voluto l’alcool, però, di
quello eccezionale. E di quei tempi, Krista lo sapeva bene quanto fosse
impossibile quella richiesta.
«Sai cosa c’è di tanto buono quanto il vino
di Roccafard? La birra di Raisinberg» buttò lì, come se fosse poca cosa. Si
versò dell’altro vino, lo scolò per metà e prese a roteare la coppa con lo
sguardo puntato sul liquido scuro in movimento.
Krista, invece, era in preda allo sconforto: trovare quella birra sottobanco era impensabile e pure rischioso, talmente tanto rischioso che nessuno dei suoi contatti avrebbe mai accettato. Così impossibile che doveva rubarselo da sola, se ci teneva veramente. Così a quel pensiero sospirò.
«Vedrò cosa posso fare» disse. Afferrò la sacca con i denari e lasciò l’ex Guerriero a scolarsi il vino nella capanna.
------Capitolo 5
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