3. Una perfetta sconosciuta

 © Irina Boicova, 2020.
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Osmelia era una Sacerdotessa di prima categoria. Aveva iniziato quel percorso fin dalla tenera età insieme a sua sorella maggiore. Ma ben presto era stato chiaro che lì dove peccava Lisia, Osmelia eccelleva. Aveva imparato a leggere i Sigilli prima ancora di saper tradurre la Lingua Stregata. Era riuscita a invocare il suo primo Spirito Immortale a soli dodici anni e aveva avuto l’immane fortuna di assistere alla nascita di una Creatura Divina. Ciò in cui falliva miseramente erano le finanze, delle quali perciò si occupava Lisia.
Ma finanze a parte, la grande Sacerdotessa specializzata in Divinazione aveva avuto un incontro che le aveva tolto il sonno per le notti a seguire. Un incontro che non era sicura di aver gestito al meglio, ma che anzi, l’aveva stravolta. Avrebbe dovuto riferire alla ragazza con il lupo ciò che l’aspettava per davvero? No, ma che sciocchezze. Lo Spirito le avrebbe squarciato la gola prima ancora che avesse finito di parlare. A quel pensiero le sue mani corsero al collo. Se lo tastò, giusto per assicurarsi che fosse ancora intatto.
Fu con quel peso che entrò nella stanza adibita alla Divinazione. Girò la testa a destra e sinistra. Sbirciò addirittura sotto il tavolo. Si sentì una sciocca.
«Ma che diamine» esalò, andando a occupare la sedia. Uno Spirito potente come Gradrisar non si sarebbe certo nascosto sotto il suo tavolo! Ma proprio mentre lo pensava, la stanza fu invasa da un fumo nero. Osmelia squittì e quando davanti a lei comparve Gradrisar in persona, smise proprio di respirare.
«L’ho incontrata!» sbottò lui battendo le mani sul tavolo tanto forte da far saltellare le sfere divinatrici sul posto.
«Ah?» esalò Osmelia ricordandosi di dover tirare una boccata d’aria.
«La ragazza, no?» fece lui e cominciò a riversare i suoi discorsi, misurando a grandi passi il piccolo stanzone incurante del terrore dipinto sulla faccia della Sacerdotessa.
«Anni e anni a seguirla e chiedermi come abbia fatto questo o quello e poi, in tre ore, scopro tante di quelle cose che sembra non le abbia viste con i miei occhi!
«Hai idea, vecchia megera, come sia stato possibile che una ragazzina potesse uscire dalla Valle dei Morti senza un solo graffio? Se non l’avessi seguita, non ci avrei neanche creduto. Invece è successo. Ma perché a un certo punto le creature abbiano smesso di attaccarla, questo non l’avevo mai capito. E se crede che fosse a causa della mia presenza si sbaglia. Avevano attaccato persino me, nonostante fossi in forma di Spirito!»
«Le Creature Divine percepiscono gli Spiriti» fece Osmelia con un filo di voce.
«Non li percepiscono, megera: li vedono, li sentono e ci parlano. Come quel cane rognoso che la segue. Comunque, sai come ha fatto? Ha smesso di combattere! Lei ha smesso e loro l’hanno lasciata stare. Assurdo, io non ci sarei mai arrivato.
«E la Foresta dei Silenzi? Una dannata foresta inghiotta-anime e una ragazzina ne esce come se niente fosse! Lei ha sentito la melodia».
«Melodia?» la curiosità ebbe il sopravvento. Lo studio dei luoghi infestati era una tappa obbligatoria nei suoi passati percorsi di studi.
«Eh, sì. Lei ha sentito una canzone cantata dalle anime. Beh, io ero lì con lei nel silenzio più assurdo, quando le anime si misero a ronzarle intorno. Mi ero detto: va bene sta trapassando, sarà meglio che la porti fuori di qui. Invece le anime le aprono un varco, così dal nulla. E non solo le permettono di uscire, ma l’accompagnano pure! Per anni mi sono chiesto cosa diamine sia successo e ora scopro che lei aveva sentito le loro canzoni».
«Può seguirla, ma non ha modo di ascoltare i suoi pensieri» esalò Osmelia dal suo angolo.
«Infatti» sputò lui. Poi tornò a sbattere le mani sul tavolo facendo tintinnare di nuovo le sfere.
«Sai qualcos’altro che vorrei scoprire? Le angurie» e si scostò per rivolgere lo sguardo al soffitto, perso nei suoi pensieri.
«A-angurie?» boccheggiò Osmelia che a quel punto non sapeva più come uscirne dalla situazione.
«Sì, le porterò un’anguria. Voglio proprio sapere perché diamine ride quando mangia l’anguria. Una volta ha persino pianto, credo che fosse la prima volta che ne ha trovata una. Perché cavolo dovrebbe piangerci?»
Osmelia scosse la testa incredula. Quel Demone conosciuto come il Più Potente Di Tutti I Tempi le stava davvero chiedendo perché una ragazzina piangesse o ridesse davanti a un’anguria?
«Lo scoprirò» si decise lo Spirito e il fumo nero si propagò nella stanza, quando Osmelia saltò in piedi.
«E il nome?»
Il viso del Demone comparve dal fumo.
«Il Nome?»
«Della ragazzina, non l’hai saputo?»
Ragdad fece un sorriso che parve compiaciuto.
«Me lo dirà la prossima volta!»
E sparì nel nulla com’era comparso. Osmelia si lasciò cadere nella poltrona. Aveva ripreso a respirare. E forse a causa dell’assurdità della situazione o dei discorsi tanto ridicoli del Demone scoppiò a ridere isterica.
***
Ragdad poteva assumere tre forme diverse: la prima, con il suo vero nome di Ragdad era l’aspetto con il quale era nato come figlio di uno Spirito Immortale, ma che pareva un comune essere appartenente alla razza dei Demoni; la seconda forma era quella Spirituale, un modo di accedere a una sorta di dimensione parallela chiamata Mondo degli Spiriti. In questa forma poteva andare ovunque volesse, comparire in un istante dall’altra parte del pianeta o seguire una ragazzina senza che lei potesse vederlo. La terza forma si era creata nel momento in cui Ragdad aveva iniziato a divorare le anime dei mostri e i loro nuclei energetici. Aveva assorbito tanto di quel potere da crescere il triplo della sua stazza. Quest’ultima forma di Ragdad era conosciuta tra i Mortali con il nome di Gradrisar, lo Spirito Immortale Più Potente Di Tutti I Tempi.
Fu in questa forma che tornò alla sua dimora di quell’epoca nelle terre del sud. Comparve avvolto dal suo fumo nero al centro della sala del castello. Alle sue spalle sull’altare rialzato si ergeva un trono di pietra lavica tanto imponente da poterci far sedere un elefante. Il trono era rivolto verso l’immensa sala di pietra viva sormontata da migliaia di pilastri squadrati. Lungo le ali dell’atrio correvano due tavoloni gemelli ricavati da lastre di marmo rosso sangue lucide e levigate. I suoi seguaci balzarono dalle panche alla vista del loro re.
Gradrisar si sedette, scivolando un poco con il sedere. Buttò una gamba di traverso sull’altra, poggiò un gomito sulla spalliera per potersi sostenere la guancia mascherata e sbottò un ringhio in risposta al silenzio.
«Mio signore!» balzò in piedi Aran della casata ScimmiaSpietata. «L’attendevamo! Ci sono novità sul fronte dei Castelli Uniti».
«Divino Spirito!» s’intromise uno degli OcchioTorvo. «Prima deve sapere che giù all’est il Passo dei Perduti è stato conquistato!»
«Se permette, Divino» si erse Gorunsaia dei CobraSanguinario, «la sua attenzione dovrebbe volgersi a ovest: la città dei Profeti è in piena rivolta. Le Sacerdotesse di Gorengrud hanno deciso di scendere in campo e riconquistare le terre sante».
Un assordante ronzio di voci si erse per tutta l’altezza della sala. Mille bocche presero a parlarsi, insultarsi e spintonarsi, quasi avessero dimenticato del loro re lì presente. Dovevano continuare al sud verso i Boschi di Esmerald. No, che boschi, a ovest contro le Sacerdotesse. Si dice che al nord siano comparsi i Guerrieri del re precedente, per vendicarsi.
La pazienza di Gradrisar non durò oltre. Sbuffò annoiato, ma nella sala il respiro si trasformò in un suono tanto potente da far vibrare le colonne. All’istante si ammutolirono e, come cani con le code tra le zampe, si voltarono a fissare il loro signore.
«Voglio un’anguria» ringhiò lo Spirito Immortale Più Potente Di Tutti I Tempi.
***
Fu con un’enorme anguria verde brillante che comparve migliaia di chilometri più a nord. Stava pensando a quanto fosse poco credibile trovare un’anguria tanto grossa e perfetta da quelle parti, quando si accorse del pericolo: il nucleo energetico della ragazza si stava svuotando. Lo percepì al limite, era sotto sforzo come un cuore che batte all’impazzata fino a consumare l’ultima goccia di sangue. Si trasportò da lei nel luogo in cui lottava.
Una pantera, grossa quanto un cavallo, era balzata contro la ragazza. I due si divincolarono a terra. Il sangue inzuppò l’erba. Koko sfrecciò sul fianco della bestia, l’azzannò tra la mascella e l’orecchio. Il mostro fu costretto a lasciare la presa sul braccio della ragazza. Ma la belva si scrollò con violenza e Koko fu sbalzato in aria.
Ragdad lasciò il Mondo degli Spiriti e, nello stesso istante in cui mise piede in quello reale, evocò la sua potente energia nera. La quale, avvolgendogli il braccio, gli permise di tagliare di netto la bestia attraversandola con la mano nuda. Il mostro crollò a terra zampillando sangue nero e gelatinoso.
«Stai bene?» fece alla ragazza che con due occhi sgranati dalla paura lo guardava immobilizzata.
«Sei ferita?» ma non avendo alcuna reazione da parte sua, le s’inginocchiò vicino. Il braccio era stato azzannato da parte a parte, proprio sotto il gomito. Il sangue sgorgava a goccioloni. Dal pallore del suo viso Ragdad intuì che ne avesse perso fin troppo.
«Non dovresti combattere con creature tanto forti» le disse prendendole la mano ferita. Si strappò senza cura il lembo del mantello e con quella striscia di stoffa iniziò ad avvolgerle la brutta ferita. «Credo che fosse un classe S».
«Non era a lui che davo la caccia» esalò lei con un filo di voce, ma senza perdere quell’espressione tramortita dal viso rigato da graffi.
«Non mi sarei stupito del contrario, comunque» rispose Ragdad lasciandosi scappare un sorriso, «dopo aver ascoltato le tue avventure».
«Dico sul serio. Cercavamo un serpente, ma questo qui deve averselo mangiato».
Ragdad strinse il nodo intorno al braccio completando la fasciatura. Alla ragazza sfuggì un gemito.
«Sì, capita che questi si mangino a vicenda. Ti credo, comunque».
L’espressione sconvolta di lei pareva non volersene andare. Ragdad inarcò il sopracciglio.
«Sembra che tu abbia visto un fantasma!» sbottò con tono scherzoso, se pur quello sguardo cominciasse a insospettirlo.
Ma a quel punto lei abbozzò un timido sorriso.
«No, mi spiace» disse, scuotendo la testa. «La verità è che nessuno mi aveva mai fasciato una ferita».
«Ah, era solo questo? Beh, sappi che io non avevo mai fasciato a nessuno delle ferite!»
Lei scoppiò a ridere. Alzò il braccio davanti ai suoi occhi e disse:
«Non ti offendi se ti dico che si vede?»
Ragdad rise insieme a lei.
L’aria tesa del combattimento si allentò. Poco più tardi chiacchieravano come vecchi amici che non si vedevano da tempo. Koko si leccava le ferite a debita distanza. Ragdad aveva portato una ciotola di acqua pulita dal ruscello lì vicino, così la ragazza poteva pulirsi il sangue.
«Quindi non hai mai avuto compagni di avventure?» le domandò Ragdad. «Lo trovo strano. Andare in giro da soli è molto pericoloso. Nemmeno i Guerrieri più esperti si azzardano a farlo».
«Ho Koko con me» fu la risposta. Si strofinò il labbro inferiore con un altro pezzo di lembo del mantello di Ragdad. Quelle labbra che aveva, parevano disegnate, con una forma bella, piene ma non volgari. Questo gli fece ricordare il giorno in cui si era reso conto che la bambina stava diventando una giovane donna.
Era la stagione di fuoco sul finire della giornata. Lei si era immersa nelle acque di un lago troppo piccolo per avere un nome. Ragdad era accorso sul posto attirato dall’odore delle creature che, a loro volta, avevano fiutato la ragazza. Mentre lui lasciava sfrecciare la sua energia alla ricerca di bersagli da mettere fuori gioco, lei ignara di tutto si era alzata dalle acque poco profonde. Si era strizzata i lunghi capelli ondulati dai bagliori violacei e le gocce erano scivolate sul petto dove crescevano i seni ormai formati. I fianchi si erano assottigliati in quei mesi e le gambe si erano definite a causa delle lunghe marce e combattimenti. Koko, che dormicchiava sulla riva, gli aveva mandato un ringhio. Ragdad gli aveva lanciato contro un sasso, ma ormai l’attenzione della ragazza si era destata e lo Spirito se n’era tornato nelle terre del sud.
«Il tuo Koko è ancora un cucciolo» le fece notare. «Prima di avere lui, chi ti faceva compagnia?»
La ragazza gli lanciò uno sguardo che lui non seppe interpretare. Poi rispose:
«Nessuno. In verità non è saggio starmi vicino».
«Non desideri alcuna compagnia e scappi dai villaggi in piena notte. Sarebbe il contrario di ciò che ogni madre raccomanderebbe ai propri figli».
Lei non poté fare a meno di sorridere con aria colpevole. Poi sospirò.
«La verità è che io sono, diciamo, maledetta. Chiunque mi stia accanto rischia di morire. Sarebbe davvero stupido da parte mia lasciar avvicinare qualcuno. Tu stesso non dovresti affatto stare qui con me».
Ragdad immaginava quale fosse il motivo. Ma per non destare sospetti glielo chiese comunque. Lei non si fece problemi a raccontare il suo incontro con lo Spirito Immortale Più Potente Di Tutti I Tempi e Ragdad provò a simulare sorpresa.
«Sì, capisco. Ma io non ho paura, quindi non mi muoverò da qui» disse. «E poi sarebbe davvero interessante viaggiare con una Cacciatrice come te. Io studio e catalogo le creature e tu dai loro la caccia. Saremmo una coppia perfetta di avventurieri!» L’idea gli era venuta senza pensarci, ma aveva senso. Per mille anni aveva vagato per tutto Gorengrud a divorare creature di ogni specie e ogni classe. Ne sapeva più lui che tutti i Sapienti di Almegada.
Di nuovo la ragazza lo guardò con curiosità, ma sorrise.
«Posso farti una domanda? Quella è forse un’anguria?»
Ragdad se n’era dimenticato del tutto. Nella foga del momento aveva lasciato cadere l’anguria che, infatti, giaceva per terra imbrattata dal sangue nero della bestia morta e spaccata dall’altra parte.
«Ah, che peccato. Quanta fatica per trovarla».
«Basterebbe pulirla!» fece lei con una voce carica di emozione. Ragdad le vide gli occhi brillare di entusiasmo. Non se lo fece ripetere: recuperò l’anguria, le diede una sciacquata e la porse alla ragazza. Per lo meno in quello stato, tutta ammaccata, non avrebbe destato alcun sospetto.
Proprio come si aspettava, quando lei affondò denti nel frutto si aprì in un sorriso largo da parte a parte. Le sfuggì un deliziato “mmm” e gli occhi si riempirono di lacrime.
La testa di Ragdad s’inclinò.
«Perché sorridi?» non riuscì più a trattenersi.
«Perché è così buona che mi rende felice!» rispose lei così estasiata da risultare contagiosa.
«Sei felice solo perché un frutto è buono?»
«Certo» fece lei e diede un altro morso.
«Di solito si è felici per molto di più» si trovò a dire Ragdad. «Per esempio: la nascita di un figlio rende felici i genitori, il matrimonio rende felici due giovani, sconfiggere i propri nemici rende felice un Guerriero. Delle volte si è felici per aver costruito una dimora dopo tanta fatica o quando torna a casa un membro della famiglia che si credeva perduto...»
Si bloccò in vista del cambiamento sul viso di lei. Gli occhi un attimo prima accesi si erano offuscati. Il sorriso si era fatto triste e aveva persino abbassato l’anguria.
«Hai ragione, la felicità è sempre qualcosa di speciale. Ma vedi, io non mi posso permettere di cercarla. Se volessi degli amici, rischierei di perderli come i miei genitori. Se amassi qualcuno, costui potrebbe morire per me. Se pensassi di avere un figlio, lo lascerei orfano.
«Siccome non voglio che niente di tutto questo accada, allora non cerco quella felicità. Ma dato che non ho nessuno, non ho niente e non conosco quasi nulla... mi sento felice con cose che gli altri trovano stupide, come una frutta. 
«Sai la prima volta che l’assaggiai non ne conoscevo nemmeno il nome. Avevo patito la fame per settimane perché c’era stata un’ondata di gelo improvvisa. Perciò, quando vidi questo frutto e lo mangiai, ebbi uno scoppio di dolcezza in bocca. Era così deliziosa e io avevo tanta fame che, credimi, scoppiai a piangere per la felicità».
Quelle parole ammutolirono Ragdad. Un attimo dopo lei parve non pensarci più, perché appena si rimise in bocca l’anguria tornò a sorridere come prima. Come se nulla fosse accaduto.
«Allora prometto di non seguirti» le disse lui poco dopo, quando l’anguria era finita e il giorno volgeva al termine. «Così saprai che non correrò alcun rischio a causa tua. Ma almeno, dato che non possiamo viaggiare insieme, incontriamoci al villaggio di Rediga, è poco più avanti».
«Proprio a Rediga sto per andare» rispose lei.
«Allora ci vediamo lì tra qualche giorno, dopo che avrò scovato una bestiaccia che si aggira da queste parti, ma che non vuole mai farsi beccare» fu l’alibi dello Spirito Immortale.
La ragazza si allontanò da lui seguita dal suo lupo nero. Pareva essersi dimenticata di aver rischiato la vita e delle sue ferite, per come andò via tranquilla.
«Ehi aspetta!» le gridò Ragdad colto alla sprovvista dai propri pensieri. La vide voltarsi. «Non mi hai detto il tuo nome!»
Il vento le portò la sua risposta:
«Akira, mi chiamo Akira!»
Akira, se lo ripeté. La sua mente tornò al momento in cui in sembianze di Gradrisar si era diretto verso l’ultima preda del villaggio Serligar, quindici anni prima. L’eco di una voce gli rimbombò nelle sue orecchie:
«Akira! Akira scappa! Vai via, Akira!»
Ho sempre saputo il suo nome, scoprì.
«Ehiii» tornò al presente al richiamo della ragazza. «E il tuo nome?»
Gli sfuggì un ghigno sotto il naso.
«Te lo dirò la prossima volta che ci vediamo!»

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