2. Una Guerra Senza Fine

© Irina Boicova, 2020. 
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«Ancora brodo di verdure?» sbraitò il re alla cuoca. La donna chinò subito il capo, ma lo sguardo corse al Sapiente, come per cercare aiuto.

«Mio re, è periodo di patate» disse quest’ultimo.

«Patate? Dov’è la carne? Io esigo la carne nella zuppa! E se poi ci volete infilare carote, patate e piselli, non me ne frega niente».

«La carne è finita, mio re» il Sapiente lo disse con un tono che doveva sembrare calmo, ma ciò infastidì il sovrano.

«Finita?» ripeté. «Come finita?»

«Non ci sono più top...» ma la cuoca balzò sul posto, come fulminata. Al re non sfuggì il perché, il Sapiente l’aveva guardata così male, tanto che lei si era strozzata con le parole.

Topi. I topi erano finiti. Avevano dato topi da mangiare al re! Ecco cosa mangiava lo stramaledetto sovrano di Tritico! Sbuffò e prese a scolarsi la zuppa. La finì in un lungo sorso e si bagnò tutta la barba.

«Ancora» fece secco. La cuoca saltò di nuovo sul posto e si affrettò a ubbidire.

Ma Torben SpagoDorato, re di Tritico e dei campi coltivati, sapeva di mangiare topi ormai da mesi. Prima dei topi c’erano stati i piccioni, spacciati per pollo dalla capocuoca Birta. Non osò immaginare se gli avessero rifilato anche cani e gatti: era da anni, che non ne vedeva più uno in giro. Si batté la barba con la mano per poi inzupparla con dell'altro brodo. Il re odiava andare ai concili a stomaco vuoto.

Finito di pranzare, se così si poteva dire, si tirò su a fatica dalla poltrona. Una volta aveva un pancione tanto grosso che la barba gli sfiorava l’ombelico. Ora la pelle era tutta floscia sotto la pesante veste reale. Eppure le ginocchia non avevano beneficiato della perdita di peso. «Sono state maltrattate per troppi anni» le aveva detto la Curatrice. Così, preso da fitte e scricchiolii alle ossa, si avviò nella sala delle riunioni, accompagnato dal Sapiente.

«Mio re».

«Altezza».

«Signore».

S’inchinarono tutti i presenti salutandolo.

Torben alzò il mento, ma strinse gli occhi. Erano in tre, più il Sapiente. Ildebrand, il suo Primo, ma anche ultimo Cavaliere, catturava subito l’attenzione: grande e grosso, in armatura argentea sempre lucida e con il mantello giallo alle spalle. Era un giovanotto dai capelli biondi tipici della zona, occhi castani e labbra strette sul viso rasato.

Koen PortoAlto era un vecchio, la cui tunica scura gli cadeva giù afflosciata, tanto era rinsecchito. Nonostante la giornata afosa indossava il mantello sulle spalle. Eppure aveva gli occhi vigili e la mente ancora sveglia.

Ezechia dei CampiVerdi era l’unica donna presente. Lo guardava truce come una maestrina. Si strinse lo scialle beige intorno alle spalle, portava le trecce raccolte intorno alla tesa, era sulla quarantina, le rughe le avevano già segnato il volto.

«Ebbene, prendete posto» il re fece loro cenno, ma fu il primo a lasciarsi andare sulla sedia dall’alto schienale. Il tavolo del concilio era lungo tanto quanto la sala stessa, ma tutti si sedettero vicino al re.

«Abbiamo perso 85 unità nelle ultime tre settimane» prese la parola il Primo Cavaliere. Intrecciò le mani sul tavolino, non aveva appunti, a cui fare riferimento. Il re lo sapeva che quel giovane non aveva mai imparato a leggere. «Sul fronte ne rimangono circa 600».

«Addirittura 600» ripeté il re. «Qual è la spiegazione a tante perdite? Nessuno mi ha informato sulle mosse del nemico? Forse sono avanzati?»

«No, mio Signore. Di recente abbiamo più disertori, che catturiamo, sia chiaro».

«E punite!»

«Certo, mio re, come lei ha ordinato, ne sono stati puniti 27 con la morte sul posto».

«Allora che fine hanno fatto gli altri?»

«Mutilati, feriti e malati. Temiamo che alcuni si lascino colpire dal nemico di proposito per ottenere la grazia e tornare in città. Mio re, la situazione è desolante. L’umore dei soldati va peggiorando. Quattro si sono suicidati giusto ieri e altri due sono stati fermati in tempo».

«Uccideteli, fate loro questa di grazia».

Il re notò lo sguardo che i Consiglieri si scambiarono l’uno con l’altro.

«Se li uccidessimo, mio re, nel giro di una stagione non ci resterebbe un solo soldato in piedi!»  Detto ciò il Primo Cavaliere intrecciò con più energia le dita sul tavolo.

«Sul fronte nemico? Quanti soldati ci stanno?»

Ildebrand evitò lo sguardo diretto.

«Le spie ci riferiscono circa 500».

«Siamo quindi in vantaggio. Avanziamo, finiamola questa farsa! Meglio morire in battaglia, che come un vigliacco suicida!»

Distolsero nuovamente lo sguardo. Il re sentì montargli la collera. Non avevano il coraggio di affrontarlo, eppure erano coalizzati contro di lui. Torben lo notava.

«Mio re» fu Ubertus il Sapiente a prendere parola. «Il vantaggio numerico è poca cosa. I nostri soldati non sono guerrieri addestrati. Sanno a malapena reggere un arco. Coloro che hanno energia per combattere si possono contare sulle dita della mano. Avanzare adesso potrebbe far finire in totale disfatta».

«Bene» Torben batté il pugno, digrignò i denti e li soppesò con lo sguardo furibondo. «Che fine hanno fatto le nuove reclute? Quanto tempo ci vuole per addestrarli, eh?»

«Mio re, non abbiamo uomini in età matura da mandare alle trincee».

«Donne».

«Mio Signore» il Sapiente s’intromise di nuovo. «Abbiamo già mandato tutti quelli che avete ritenuto poco indispensabili. Non possiamo rinunciare alle cuoche, alle Curatrici, alle lavandaie…»

«Cavaliere, non c’è molta differenza tra quindici e quattordici anni…» insistette Torben.

Il re vide Ildebrand deglutire. Lo fissò negli occhi e poi disse: «Se è questo ciò che desidera».

«Anche tredici». Più ci pensava e più aveva senso. «Dichiaro qui e ora, che da oggi l’età matura si raggiunge a tredici anni».

«Mio re».

«Ma Signore…»

E presero a parlare tutti insieme.

Il re batté il pugno per la seconda volta, così li zittì.

«I ragazzi sono impegnati nel raccolto, mio re» parlò il vecchio Koen che si occupava dell’inventario di cibo e dei beni della città. «Si procede già a rilento. Se dovessimo togliere altre braccia all’agricoltura, temo che il raccolto andrà a male, quindi sprecato».

La furia s’impossessò di Torben, la trattenne con tutta la pazienza, di cui fu capace. Solo il suo pugno, tanto stretto che le nocche si erano sbiancate, mostrò la rabbia che aveva dentro.

«Che altro, eh? Che altro avete da riportare?» si lasciò sfuggire a denti stretti.

«Non abbiamo più denari per i soldati» disse Ezechia come a sfidarlo. «Non possono più comprarsi scarpe o armi».

«Ai soldati ho promesso terre da coltivare, quando la guerra sarà finita».

«Loro temono di non vederla mai questa fine, mio re» parlò il Cavaliere. «Quel pezzo di carta non ha alcun valore per loro. Non possono comprare nulla con quello».

«Le scorte di cibo sono al minimo mai registrato» proseguì Koen. «Eppure abbiamo i campi pronti con frutti maturi e verdure, che appassiscono senza essere raccolti. I ragazzini sono lenti e pochi. Se facessimo tornare i 600 uomini dal fronte, potremmo risolvere questa brutta situazione».

«QUESTO» batté il pugno così forte, che li fece saltare sulle sedie. Ma se ne pentì, perché la mano prese a bruciare. Ciò lo fece infuriare ancora di più. «VOI VOLETE QUESTO! AMMETTETELO!»

«Mio re, questa guerra non ha più senso» il Sapiente tenne lo sguardo. «Sono diciassette anni che va avanti, ormai non c’è più nulla da vincere o da guadagnare».

«Mi chiedete l’arresa, dannati che non siete altro?»

«Non esiste soluzione alternativa».

«Fuori, fuori di qui, tutti! Andate via!»

Sbuffò come un toro imbestialito in attesa che i quattro lo lasciassero da solo. Quando si chiusero le porte alle spalle, il re poggiò le mani sul tavolone.

Maledetti.

Diciassette anni fa, proprio in quella sala, il re Torben SpagoDorato aveva riunito gli esponenti più alti dell’intero pianeta. Erano accorse al suo appello le casate più importanti, i Cavalieri più forti, i Sapienti più accolti e persino il re degli Ascoltatori. Ricordava ancora quando li aveva aizzati alla guerra e che ruggito ne era seguito! Pure il tetto aveva tremato in quella lontana notte.

A quell’epoca la città di Tritico era la più ricca e potente dell’intero pianeta: la via commerciale tra nord e sud, tra est e ovest. I mercanti pagavano il tributo per entrarvi, anche il doppio quando i posti per le bancarelle erano in esaurimento. I campi intorno alla città erano floridi tutte le stagioni dell’anno. Producevano birra e vino, cereali e dolci, frutta e verdura. La Torre dei Denari era così colma di monete che la pila si alzava fino al cielo! E tutto questo Archibald dei DistesaRossa, re di Abadira, lo sapeva.

Torben e Archibald ebbero discussioni per anni. Prima perché Tritico aveva troppi campi, mentre ad Abadira servivano pascoli più grandi. Inoltre la carne, il latte e i formaggi della città rivale costavano un denaro in più rispetto alla stagione precedente, tra una scusa e l’altra. C’erano poi casate che stavano in favore di uno o dell’altro. Infine quando i restanti re di Uragada presero posizione a loro volta, scoppiò la guerra.

I primi anni Torben li ricordava colorati di frenesia, di agitazione e di eccitamento. Le prime battaglie erano state cruente: migliaia di Volatili avevano sorvolato i cieli, uragani tremendi si erano abbattuti sulle file dei nemici. Si udivano urla e grida coperti dai tuoni degli Elettra. Torben era stato al comando di 20.000 uomini, solo dalla città di Tritico. Altri 30.000 li aveva portati il suo alleato, re degli Ascoltatori e delle Terre Nordiche, giù dalle montagne. Quanto sangue era stato versato all'inizio!

Torben aveva perso tre figli nella guerra: Tito, il maggiore e suo Primo Cavaliere, era stato ucciso dagli Elettra; Konnar era morto sette anni dopo sul campo; Kevin aveva sedici anni e la guerra durava già da dieci, quando aveva ucciso il re nemico con le sue stesse mani. Sul trono di Abadira era salito il figlio, Borrian, e la guerra era proseguita.

Ma ci furono tradimenti e complotti. Gli Elettra abbandonarono Borrian alla morte del re. Sette casate rivendicarono il trono e presero a battersi tra loro nelle Terre di Buriana. Morì anche il re degli Ascoltatori, il suo vecchio amico, e anche questi decisero di ritirarsi. Delle antiche casate non rimasero che mosche: i Cavalieri erano periti, i denari erano stati spesi. Così, ormai da anni, non rimaneva che il fronte tra est e ovest: trincee lunghe mezzo continente che puzzavano di piscio, di morte e di feci.

«Ho perso troppo in questa guerra» disse il re alla sala vuota.

Come i figli anche la moglie che, per disperazione, si era gettata dalla torre. La sua città aveva subìto sette attacchi e tutto il lato est era crollato. All’epoca aveva 97 Consiglieri, adesso solo quei quattro imbecilli. Era ricco, grasso e mangiava carne pregiata, vino antico e formaggi stagionati. Ora manco i topi aveva più nella zuppa.

«Non mi arrenderò mai. MAI. Per tutto ciò che ho perso e ho sacrificato, quella maledetta vittoria sarà mia!»

-------Capitolo 3

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