«Ancora brodo di verdure?» sbraitò il re
alla cuoca. La donna chinò subito il capo, ma lo sguardo corse al Sapiente,
come per cercare aiuto.
«Mio re, è periodo di patate» disse
quest’ultimo.
«Patate? Dov’è la carne? Io esigo la carne
nella zuppa! E se poi ci volete infilare carote, patate e piselli, non me ne
frega niente».
«La carne è finita, mio re» il Sapiente lo
disse con un tono che doveva sembrare calmo, ma ciò infastidì il sovrano.
«Finita?» ripeté. «Come finita?»
«Non ci sono più top...» ma la cuoca balzò
sul posto, come fulminata. Al re non sfuggì il perché, il Sapiente l’aveva guardata
così male, tanto che lei si era strozzata con le parole.
Topi. I topi erano finiti. Avevano dato topi da mangiare al re! Ecco cosa mangiava lo stramaledetto sovrano
di Tritico! Sbuffò e prese a scolarsi la zuppa. La finì in un lungo sorso e
si bagnò tutta la barba.
«Ancora» fece secco. La cuoca saltò di
nuovo sul posto e si affrettò a ubbidire.
Ma Torben SpagoDorato, re di Tritico e dei
campi coltivati, sapeva di mangiare topi ormai da mesi. Prima dei topi c’erano
stati i piccioni, spacciati per pollo dalla capocuoca Birta. Non osò immaginare
se gli avessero rifilato anche cani e gatti: era da anni, che non ne vedeva più
uno in giro. Si batté la barba con la mano per poi inzupparla con dell'altro
brodo. Il re odiava andare ai concili a stomaco vuoto.
Finito di pranzare, se così si poteva dire,
si tirò su a fatica dalla poltrona. Una volta aveva un pancione tanto grosso
che la barba gli sfiorava l’ombelico. Ora la pelle era tutta floscia sotto la
pesante veste reale. Eppure le ginocchia non avevano beneficiato della perdita
di peso. «Sono
state maltrattate per troppi anni» le aveva detto la Curatrice. Così,
preso da fitte e scricchiolii alle ossa, si avviò nella sala delle riunioni,
accompagnato dal Sapiente.
«Mio re».
«Altezza».
«Signore».
S’inchinarono tutti i presenti salutandolo.
Torben alzò il mento, ma strinse gli occhi.
Erano in tre, più il Sapiente. Ildebrand, il suo Primo, ma anche ultimo
Cavaliere, catturava subito l’attenzione: grande e grosso, in armatura argentea
sempre lucida e con il mantello giallo alle spalle. Era un giovanotto dai
capelli biondi tipici della zona, occhi castani e labbra strette sul viso
rasato.
Koen PortoAlto era un vecchio, la cui
tunica scura gli cadeva giù afflosciata, tanto era rinsecchito. Nonostante la
giornata afosa indossava il mantello sulle spalle. Eppure aveva gli occhi
vigili e la mente ancora sveglia.
Ezechia dei CampiVerdi era l’unica donna
presente. Lo guardava truce come una maestrina. Si strinse lo scialle beige intorno alle spalle, portava le
trecce raccolte intorno alla tesa, era sulla quarantina, le rughe le avevano
già segnato il volto.
«Ebbene, prendete posto» il re fece loro
cenno, ma fu il primo a lasciarsi andare sulla sedia dall’alto schienale. Il
tavolo del concilio era lungo tanto quanto la sala stessa, ma tutti si
sedettero vicino al re.
«Abbiamo perso 85 unità nelle ultime tre
settimane» prese la parola il Primo Cavaliere. Intrecciò le mani sul tavolino,
non aveva appunti, a cui fare riferimento. Il re lo sapeva che quel giovane non
aveva mai imparato a leggere. «Sul fronte ne rimangono circa 600».
«Addirittura 600» ripeté il re. «Qual è la
spiegazione a tante perdite? Nessuno mi ha informato sulle mosse del nemico?
Forse sono avanzati?»
«No, mio Signore. Di recente abbiamo più
disertori, che catturiamo, sia chiaro».
«E punite!»
«Certo, mio re, come lei ha ordinato, ne
sono stati puniti 27 con la morte sul posto».
«Allora che fine hanno fatto gli altri?»
«Mutilati, feriti e malati. Temiamo che
alcuni si lascino colpire dal nemico di proposito per ottenere la grazia e
tornare in città. Mio re, la situazione è desolante. L’umore dei soldati va
peggiorando. Quattro si sono suicidati giusto ieri e altri due sono stati
fermati in tempo».
«Uccideteli, fate loro questa di grazia».
Il re notò lo sguardo che i Consiglieri si
scambiarono l’uno con l’altro.
«Se li uccidessimo, mio re, nel giro di una
stagione non ci resterebbe un solo soldato in piedi!» Detto ciò il Primo Cavaliere intrecciò con
più energia le dita sul tavolo.
«Sul fronte nemico? Quanti soldati ci
stanno?»
Ildebrand evitò lo sguardo diretto.
«Le spie ci riferiscono circa 500».
«Siamo quindi in vantaggio. Avanziamo,
finiamola questa farsa! Meglio morire in battaglia, che come un vigliacco
suicida!»
Distolsero nuovamente lo sguardo. Il re
sentì montargli la collera. Non avevano il coraggio di affrontarlo, eppure
erano coalizzati contro di lui. Torben lo notava.
«Mio re» fu Ubertus il Sapiente a prendere
parola. «Il vantaggio numerico è poca cosa. I nostri soldati non sono guerrieri
addestrati. Sanno a malapena reggere un arco. Coloro che hanno energia per
combattere si possono contare sulle dita della mano. Avanzare adesso potrebbe
far finire in totale disfatta».
«Bene» Torben batté il pugno, digrignò i
denti e li soppesò con lo sguardo furibondo. «Che fine hanno fatto le nuove
reclute? Quanto tempo ci vuole per addestrarli, eh?»
«Mio re, non abbiamo uomini in età matura
da mandare alle trincee».
«Donne».
«Mio Signore» il Sapiente s’intromise di
nuovo. «Abbiamo già mandato tutti quelli che avete ritenuto poco
indispensabili. Non possiamo rinunciare alle cuoche, alle Curatrici, alle
lavandaie…»
«Cavaliere, non c’è molta differenza tra
quindici e quattordici anni…» insistette Torben.
Il re vide Ildebrand deglutire. Lo fissò
negli occhi e poi disse: «Se è questo ciò che desidera».
«Anche tredici». Più ci pensava e più aveva
senso. «Dichiaro qui e ora, che da oggi l’età matura si raggiunge a tredici
anni».
«Mio re».
«Ma Signore…»
E presero a parlare tutti insieme.
Il re batté il pugno per la seconda volta,
così li zittì.
«I ragazzi sono impegnati nel raccolto, mio
re» parlò il vecchio Koen che si occupava dell’inventario di cibo e dei beni
della città. «Si procede già a rilento. Se dovessimo togliere altre braccia
all’agricoltura, temo che il raccolto andrà a male, quindi sprecato».
La furia s’impossessò di Torben, la
trattenne con tutta la pazienza, di cui fu capace. Solo il suo pugno, tanto
stretto che le nocche si erano sbiancate, mostrò la rabbia che aveva dentro.
«Che altro, eh? Che altro avete da
riportare?» si lasciò sfuggire a denti stretti.
«Non abbiamo più denari per i soldati»
disse Ezechia come a sfidarlo. «Non possono più comprarsi scarpe o armi».
«Ai soldati ho promesso terre da coltivare,
quando la guerra sarà finita».
«Loro temono di non vederla mai questa
fine, mio re» parlò il Cavaliere. «Quel pezzo di carta non ha alcun valore per
loro. Non possono comprare nulla con quello».
«Le scorte di cibo sono al minimo mai
registrato» proseguì Koen. «Eppure abbiamo i campi pronti con frutti maturi e
verdure, che appassiscono senza essere raccolti. I ragazzini sono lenti e
pochi. Se facessimo tornare i 600 uomini dal fronte, potremmo risolvere questa
brutta situazione».
«QUESTO» batté il pugno così forte, che li
fece saltare sulle sedie. Ma se ne pentì, perché la mano prese a bruciare. Ciò
lo fece infuriare ancora di più. «VOI VOLETE QUESTO! AMMETTETELO!»
«Mio re, questa guerra non ha più senso» il
Sapiente tenne lo sguardo. «Sono diciassette anni che va avanti, ormai non c’è
più nulla da vincere o da guadagnare».
«Mi chiedete l’arresa, dannati che non
siete altro?»
«Non esiste soluzione alternativa».
«Fuori, fuori di qui, tutti! Andate via!»
Sbuffò come un toro imbestialito in attesa
che i quattro lo lasciassero da solo. Quando si chiusero le porte alle spalle,
il re poggiò le mani sul tavolone.
Maledetti.
Diciassette anni fa, proprio in quella
sala, il re Torben SpagoDorato aveva riunito gli esponenti più alti dell’intero
pianeta. Erano accorse al suo appello le casate più importanti, i Cavalieri più
forti, i Sapienti più accolti e persino il re degli Ascoltatori. Ricordava
ancora quando li aveva aizzati alla guerra e che ruggito ne era seguito! Pure
il tetto aveva tremato in quella lontana notte.
A quell’epoca la città di Tritico era la
più ricca e potente dell’intero pianeta: la via commerciale tra nord e sud, tra
est e ovest. I mercanti pagavano il tributo per entrarvi, anche il doppio quando
i posti per le bancarelle erano in esaurimento. I campi intorno alla città
erano floridi tutte le stagioni dell’anno. Producevano birra e vino, cereali e
dolci, frutta e verdura. La Torre dei Denari era così colma di monete che la
pila si alzava fino al cielo! E tutto questo Archibald dei DistesaRossa, re di
Abadira, lo sapeva.
Torben e Archibald ebbero discussioni per
anni. Prima perché Tritico aveva troppi campi, mentre ad Abadira servivano
pascoli più grandi. Inoltre la carne, il latte e i formaggi della città rivale
costavano un denaro in più rispetto alla stagione precedente, tra una scusa e
l’altra. C’erano poi casate che stavano in favore di uno o dell’altro. Infine
quando i restanti re di Uragada presero posizione a loro volta, scoppiò la guerra.
I primi anni Torben li ricordava colorati
di frenesia, di agitazione e di eccitamento. Le prime battaglie erano state
cruente: migliaia di Volatili avevano sorvolato i cieli, uragani tremendi si
erano abbattuti sulle file dei nemici. Si udivano urla e grida coperti dai
tuoni degli Elettra. Torben era stato al comando di 20.000 uomini, solo dalla
città di Tritico. Altri 30.000 li aveva portati il suo alleato, re degli
Ascoltatori e delle Terre Nordiche, giù dalle montagne. Quanto sangue era stato
versato all'inizio!
Torben aveva perso tre figli nella guerra:
Tito, il maggiore e suo Primo Cavaliere, era stato ucciso dagli Elettra; Konnar
era morto sette anni dopo sul campo; Kevin aveva sedici anni e la guerra durava
già da dieci, quando aveva ucciso il re nemico con le sue stesse mani. Sul
trono di Abadira era salito il figlio, Borrian, e la guerra era proseguita.
Ma ci furono tradimenti e complotti. Gli
Elettra abbandonarono Borrian alla morte del re. Sette casate rivendicarono il
trono e presero a battersi tra loro nelle Terre di Buriana. Morì anche il re
degli Ascoltatori, il suo vecchio amico, e anche questi decisero di ritirarsi.
Delle antiche casate non rimasero che mosche: i Cavalieri erano periti, i
denari erano stati spesi. Così, ormai da anni, non rimaneva che il fronte tra
est e ovest: trincee lunghe mezzo continente che puzzavano di piscio, di morte
e di feci.
«Ho perso troppo in questa guerra» disse il
re alla sala vuota.
Come i figli anche la moglie che, per
disperazione, si era gettata dalla torre. La sua città aveva subìto sette
attacchi e tutto il lato est era crollato. All’epoca aveva 97 Consiglieri,
adesso solo quei quattro imbecilli. Era ricco, grasso e mangiava carne
pregiata, vino antico e formaggi stagionati. Ora manco i topi aveva più nella
zuppa.
«Non mi arrenderò mai. MAI. Per tutto ciò
che ho perso e ho sacrificato, quella maledetta vittoria sarà mia!»
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